Domenica 9 ottobre a Malga Silvagno, Comune di Valbrenta le sezioni dell’A.N.P.I. Valbrenta, Altopiano dei Sette Comuni, Bassano Marostica invitano alla commemorazione dei quattro partigiani garibaldini assassinati da alcuni dei loro compagni.
Commemorazione dei partigiani caduti a Malga Silvagno
9 ottobre 2022
Giovanna De Antoni
Saluto i rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni, i compagni dell’ANPI e tutti coloro che, anche quest’anno, dal 2012, si riuniscono qui, a Malga Silvagno, nel ricordo di un evento doloroso di “conflittualità interpartigiana” che rappresenta “un grumo irrisolto nella memoria resistenziale” (Santo Peli)
Eppure, l’immagine di tutti noi che, camminando insieme, ci accostiamo con rispettosa emozione a questo luogo della memoria, è quella del pellegrinaggio civile di cui Piero Calamandrei parlava rivolgendosi ai giovani milanesi nel 1955, invitandoli ad andare in pellegrinaggio nelle montagne dove caddero i partigiani, perché lì è nata la nostra Costituzione, “ovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità”.
Qui non ci conduce l’abitudine che ha accompagnato, in anni passati, le stanche e vuote liturgie di una eroica quanto stereotipata epopea resistenziale, costruita sulla rimozione delle ombre e delle contraddizioni.
Qui ci conduce la consapevolezza dell’immane difficoltà affrontata dagli uomini e dalle donne che hanno scelto di stare dalla parte giusta per ritagliarsi uno spazio di iniziativa, una possibile identità autonoma fra le forze in campo nel nostro paese tra l’autunno del ‘43 e la primavera del ‘45.
Dalla parte giusta avevano scelto di stare Giuseppe Crestani (Bepi Stizza) e Ferruccio Roiatti (Spartaco), unitisi già alla metà di ottobre del ‘43 al gruppo di Fontanelle di Conco, Tommaso Pontarollo (Coarossa Masetti) e il veneziano, purtroppo non identificato, Zorzi (Pirro). Erano garibaldini, partigiani comunisti; la loro storia e la vicenda consumatasi qui e alla Busa del Giasso la conosciamo, è stata ricostruita in forma definitiva in ricerche documentatissime.
Erano antifascisti convinti fin dagli anni Trenta: chi aveva combattuto nella guerra civile spagnola a fianco della Repubblica, chi aveva cercato di raggiungere volontario la Spagna, teatro della prova generale della guerra totale: avevano tutti sofferto la prigionia e il confino.
Le loro motivazioni erano chiare, robusta la coscienza politica, convinta la determinazione ad intraprendere azioni di guerriglia, perché il destino andava aiutato e anche preparato.
In un clima di confusione e incertezza, anche i giovani di Nove scelsero la montagna, per fuggire i bandi di arruolamento di Graziani: certo, con un sentimento politico forse indeterminato; avevano scelto di stare dalla “parte giusta” anche i responsabili dell’eccidio di Malga Silvagno, della brutale uccisione di Bepi Stizza, Spartaco, Coarossa Masetti e Zorzi Pirro. Vittime anch’essi, vittime due volte, della loro ignoranza e della loro “orrenda debolezza” (Giaime Pintor) prima, e vittime della violenza nazista e fascista poi.
Il movimento resistenziale, ai suoi albori, non era unito, nonostante i tentativi del CLN di inquadrarlo, efficaci solo nella fase conclusiva del biennio 43-45. Uniti nella lotta contro tedeschi e collaborazionisti, gruppi diversi per ispirazione ideale e fini erano confluiti nella Resistenza, che, quindi, non è movimento unitario e corale di popolo, come una sua prima rappresentazione ha voluto accreditare.
Un’immagine mitizzata ed edulcorata della realtà, funzionale ai governi di unità nazionale fino al ‘47, ma deformata in quanto mitizzata.
Al contrario, problematica, frastagliata, complessa e dal percorso tutt’altro che rettilineo, ma segnato da incertezze, debolezze, errori ed efferatezze e, anche, da momenti d’illusione e da altri di sconforto, da drammatiche lacerazioni: questa è stata la Resistenza, così come la storiografia l’ha ricostruita negli ultimi trent’anni ormai, da quando Claudio Pavone ha impresso una svolta decisa negli studi con “Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella resistenza”.
Dopo Pavone, diventa possibile e urgente tornare a misurarsi con la tensione etica e la drammatica incertezza con cui un’esigua minoranza aveva dovuto fare i conti, “con lo stupito orrore della morte data e subita”, l’imperizia nell’uso delle armi, i mutevoli rapporti con la popolazione, i contrasti tra formazioni partigiane, i contrasti interni alle bande fin dalla fase aurorale.
Una Resistenza difficile, insomma.
I suoi limiti e le sue ombre non vanno più taciuti perché “l’unico modo di mantenere in vita la Resistenza, il significato di lotta contro il fascismo, la Germania nazista e i loro alleati, è di fare opera di verità” (Santo Peli). Dire la verità è un atto di coraggio e di forza.
È necessario riconoscere, dunque, che tra i partiti, tra le formazioni partigiane e anche all’interno delle singole formazioni partigiane, i rapporti erano nello stesso tempo di collaborazione e di concorrenza: la tendenza alla “concorrenza nell’unità”, “l’unione disarmonica” segnano l’intera vicenda della Resistenza” (Santo Peli).
Il conflitto dialettico che ha caratterizzato il dibattito interno al CLN è stato sicuramente proficuo, una vera e propria palestra di democrazia in quei venti mesi che sono stati una vera e propria educazione alla politica per chi era vissuto per vent’anni in un regime totalitario; un momento indispensabile, quindi, per la ricostruzione di una nuova Italia al termine della guerra.
Ma proprio la guerra – la guerra nella quale il fascismo aveva trascinato gli italiani, dopo aver inculcato una cultura intrisa di nazionalismo bellicista, di odio contro l’altro identificato con il nemico – aveva disseminato violenza, brutalizzato mentalità e comportamenti, assuefatto al ricorso alla violenza. In questo contesto, di terribile esplosione di violenza e di divisione interna tra bianchi e rossi, di forte contrapposizione cattolica all’internazionalismo comunista, si consuma qui, a Malga Silvagno e alla Busa del Giasso, la tragedia dei quattro compagni comunisti, trucidati dai compagni più giovani, politicamente non attrezzati e probabilmente facile strumento di direttive esterne al gruppo: uomini semplici, culturalmente incapaci di comprendere le motivazioni fortissime dei compagni, che già alla lotta al fascismo avevano sacrificato i loro anni, nella speranza di un futuro migliore.
Quale sia stato, poi, il futuro dell’Italia, nel contesto della guerra fredda prima e del post ‘89-’91 poi, lo sappiamo. Ma il nostro paese, proprio grazie alla Resistenza, ha potuto scrivere la sua Costituzione, risultato di un compromesso altissimo e onorevole cui è giunto un ceto politico di qualità, che da allora non abbiamo più conosciuto.
Proprio la Costituzione è stata ed è la nostra arca identitaria e lo è anche oggi, nel nostro tempo, segnato dall’incombere di crisi gravissime, in un clima di rinascita di pulsioni nazionalistiche.
Ai giovani, ai quali si dovrebbe cercare di allargare la partecipazione a riti civili come questi, non credo proprio potremmo dire che quelle di oggi sono l’Italia e l’Europa che avevano sognato e per le quali avevano combattuto i quattro compagni che commemoriamo oggi. In una nuova guerra, che si aggiunge alle quasi sessanta oggi in corso e quasi dimenticate, sta rischiando di scivolare l’Europa.
Non lo avremmo pensato possibile, dopo il secondo conflitto mondiale e il disastro atomico; eppure ora la guerra continua ad essere alimentata.
Per questo, non può non scuotere il forte e preoccupato richiamo di papa Francesco ai responsabili politici delle Nazioni perché si ponga fine alla immane tragedia in corso, “senza lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation”.
E allo stesso modo, le parole del Presidente Mattarella ad Assisi, nella giornata di Francesco, dicono forte e chiaro che arrendersi alla logica della guerra, che consuma la ragione e la vita delle persone, e impoverisce il mondo, significa avviarlo verso la distruzione.
Ricordare Giuseppe, Ferruccio, Tommaso e Zorzi è doveroso per rendere, attraverso lo sforzo di verità e di comprensione, giustizia; ma è ancor più importante per noi, che della loro scelta di resistere al sistema nazista e fascista, incardinato sull’idea di ineguaglianza e sulla gerarchia razziale e sulla pratica dello sterminio, dobbiamo custodire l’impegno alla lotta contro ogni forma di ineguaglianza e di ingiustizia oggi.
Solo così ha senso tenere vivo il valore della memoria della lotta resistenziale, in quanto continua a essere “rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù” (C. Pavone).
Resistenza, ora e sempre!
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