Renzo Ghisi, falegname, nacque ad Ostiglia (MN) il 12 giugno 1920. Nel 1940 volontariamente si arruolò nell’Arma dei Carabinieri Reali. Dopo la frequenza del corso a Torino, venne trasferito alla Stazione di Cussone ove rimase fino alla fine della ferma. Allo scadere dei 18 mesi venne comunque trattenuto sotto le armi con la 149^ Sezione CC. RR. Dopo l’armistizio dell’8 settembre tornò a casa ove subì un arresto, in seguito al quale si presentò nuovamente alla caserma di Verona nel febbraio 1944. Vi rimase per qualche tempo, ma, alla notizia che i Carabinieri sarebbero stati inviati in Germania e non potendo tornare al suo paese, decise di avviarsi verso le montagne dell’Alto Vicentino dove, ormai allo sbando, si unì ai partigiani e come nome di battaglia scelse quello di un altro Carabiniere Scapaccino, eroe morto difendendo il giuramento fatto alla casa Savoia.
L’ultima nota nel suo ruolo matricolare lo dà sbandato a Schio il 30 maggio del 1944.
Nelle stesse fila partigiane, Renzo Ghisi trovò un suo paesano Guido Vigoni, nome di battaglia Mantoan.
Alle prime luci dell’alba del 17 giugno 1944, mentre le truppe nazi-fasciste iniziavano un importante rastrellamento, i due ostigliesi, Renzo Ghisi e Guido Vigoni, per risparmiare la strada ai loro compagni partigiani, con cui avevano passato la notte in un cason nei pressi di Vallortigara, si offrirono di andare alla latteria di Santacaterina a prendere il latte per le colazioni. Ma i due, che erano scesi verso il paese disarmati, incapparono nella colonna dei rastrellatori. Alla vista dei soldati, tentarono di dividersi in un disperato tentativo di fuga, ma nessuno dei due riuscì a sfuggire alla trappola.
Scapaccino fu catturato appena fuori dall’abitato nella zona di contrà Bonolli. Riconosciuto subito quale partigiano, fu sottoposto a percosse e ad un violento interrogatorio, cui rispose con un ostinato silenzio. Allora alcuni dei nazifascisti con una corda lo legarono ad un albero, guardandolo a vista, mentre i loro camerati procedevano con il rastrellamento e le perquisizioni.
Al termine delle operazioni il giovane mantovano fu legato con una corda girata intorno al collo ad un carro. La colonna si mise in marcia verso Vallortigara. Percorse però poche decine di metri uno dei soldati gli sparò ad entrambi i piedi. Scapaccino crollò a terra e, impossibilitato a camminare, venne trascinato via sull’acciottolato.
Più volte tentò di aggrapparsi al carro, ma i militari lo colpivano con il calcio dei fucili sulle mani, impedendo la presa. Il supplizio del giovane Carabiniere-Partigiano fu tremendo: a peso morto, appeso per il collo, fu trascinato lungo la strada sterrata per quasi 11 chilometri, finché le sue carni, lacerate dal ruvido fondo stradale, diventarono un ammasso sanguinolento. Quando arrivarono poco più in basso della cosi detta ‘curva della Crose’, sotto la chiesetta di S. Sebastiano, forse stanchi di proseguire il crudele gioco o forse mossi a pietà da un gruppo di donne che avevano realizzato inorridite cosa fosse in realtà quel fardello scomposto attaccato al carretto, i nazifascisti soppressero Scapaccino con una raffica al petto.
Assistette da lontano all’esecuzione Tiziana Corzato, staffetta partigiana, rifugiata insieme ad altre donne in contrà Tomasi. Quando i militari se ne andarono, Tiziana con una compagna scese di corsa e trovò Scapaccino era ancora vivo. Tiziana si precipitò a prendere dell’acqua ma, allorché tentò di farlo bere, il povero giovane chiuse per sempre gli occhi.
Scapaccino in quel momento apri le mani che teneva strette al petto e che contenevano due oggetti: un mozzicone di matita Fila e una fototessera della fidanzata.
Tiziana trattenne per ricordo i due oggetti che custodisce tutt’oggi gelosamente, e spostò il corpo del partigiano al lato della strada, in mezzo al frumento per preservarlo da ulteriori ingiurie.
Il suo corpo e quello degli altri partigiani morti a Vallortigara, per ordine nazi-fascista, furono lasciati sotto le intemperie per quattro giorni.