Articolo tratto dal sito nazionale dell’ANPI.
Leggo sui giornali, testualmente, un titolo come questo “Addio all’articolo 18” e una dichiarazione del Presidente del Consiglio italiano che nel dichiararsi soddisfatto, afferma “abbiamo tolto l’articolo 18”. Non mi interessano i distinguo, gli accordi raggiunti in Parlamento e le soddisfazioni manifestate. Mi chiedo solo se tutti ricordino la storia e le origini dell’art.18, pronto a sentirmi dare del conservatore, ma forte del fatto che la storia non si può contestare ed è lì a ricordarci i suoi valori.
La racconterò in modo rapido e sommario, questa storia che comincia nel 1955, con un famoso convegno a Torino sui licenziamenti, che vide riuniti molti dei più importanti giuristi, del lavoro e costituzionalisti, del Paese. Era accaduto che in una grande fabbrica del nord fosse stato licenziato un lavoratore, con espresso riferimento ai motivi “politici” del licenziamento stesso. Questa esibizione “muscolare” provocò una sorta di rivolta morale, nel Paese, tra i lavoratori, gli intellettuali, i giuristi. Ne nacque un convegno in cui tutti misero in discussione la facoltà di recesso da parte del datore di lavoro, come uno dei più consistenti strumenti di potere contro i lavoratori.
Da quel convegno nacque una spinta politica e sindacale, che impiegò degli anni, ma alla fine sfociò nella prima legge italiana sui licenziamenti, quella del 15 luglio 1966, n.604 (norme sui licenziamenti individuali) che introduceva l’obbligo di motivazione e affiancava alla “giusta causa”, già prevista dal Codice civile, il “giustificato motivo”. La legge costituiva un grande passo avanti, rispetto al potere indiscriminato di recesso, ma aveva un limite, nel senso che tutto si poteva risolvere, in caso di licenziamento ingiustificato, col pagamento di alcune mensilità di retribuzione (come alternativa rispetto alla reintegrazione).
Ci vollero ancora degli anni e le battaglie sindacali del così detto” autunno caldo” per arrivare alla legge 20 maggio 1970, n. 300 (“Statuto dei diritti dei lavoratori”) intitolata significativamente come “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori”. Nello Statuto era compreso l’art.18, che superava il limite della legge precedente, prevedendo – in caso di licenziamento ingiustificato – la reintegrazione.
Un percorso lungo, complesso e ricco di lotte per arrivare alla prima vera applicazione delle norme della Costituzione che riguardano il lavoro, facendo della tutela dei diritti di chi lavora un a questione di dignità e di libertà. Da molti quella fu considerata una conquista di straordinaria importanza. Se nel Convegno del 1955 si era affermato che la Costituzione si era fermata fuori dei cancelli delle fabbriche, con lo Statuto e con l’art.18 quella soglia era stata finalmente superata.
Un giurista di grande rilievo e di insospettabile indipendenza di giudizio (che pagherà poi con la morte) Massimo D’Antona, poteva affermare che “il merito maggiore dell’art. 18 sta nell’aver tradotto nel linguaggio del diritto […] l’idea che esiste, e deve essere difeso, un diritto del lavoratore alla conservazione del suo concreto posto di lavoro”. Un altro grande giurista del lavoro, Giorgio Ghezzi scriverà, anni dopo, che “la tutela reale del posto di lavoro è, in sé stessa, un regime di integrale ripristino della continuità giuridica del rapporto di lavoro” e sosterrà che “la totale reintegrazione del posto di lavoro […] si traduce non nella difesa di un singolo diritto, pur importante e significativo che sia, ma nella salvaguardia dell’intero regime dei diritti soggettivi, sia individuali che collettivi oggi fruibili sul posto di lavoro”.
Questo spiega perché, quando fu proposto da Marco Pannella un referendum abrogativo dell’art.18, nel 2000, vi fu una vera sollevazione non solo dei lavoratori, ma anche di tanti giuristi e della gran parte della cultura politica del Paese (ricordo, fra l’altro, una lettera della Federazione milanese dei Democratici di sinistra, inviata ad un convegno proprio su quel referendum, in cui si ribadiva con nettezza l’impegno del maggior partito di sinistra per un fermo ”no” alla proposta referendaria).
È passata molta acqua sotto i ponti, persino rispetto al momento in cui – proprio sull’art.18 – Cofferati riempì le piazze di Roma, per esprimere la ferma contrarietà ad ogni ipotesi di riforma. Peraltro, è anche bene ricordare come finì quel referendum per l’abrogazionedell’art.18 a cui ho fatto riferimento più sopra: il referendum non raggiunse il quorum dei votanti necessario, ma di quelli che andarono a votare il 66,6% si espresse contro l’abrogazione.
Oggi, molti sembrano avere dimenticato questo lungo percorso; e perfino il richiamo alla libertà e dignità, contenuto nel titolo dello ”Statuto”, sembra aver perso molto del suo smalto, nelle menti e nei cuori di tanti. È per questo che vale la pena di ricordare ciò che la storia dovrebbe insegnare, il lavoro, le lacrime e il sangue di quanti hanno sofferto perché fosse – almeno su questo punto – attuata la Costituzione.
So di parlare al vento, ma mi auguro che almeno lui (il vento) abbia buona memoria e tenga conto dei valori e dei significati della storia, sempre utili e necessari per uscire dalla crisi in modo duraturo e soprattutto equo. Intanto, impietosamente, sono usciti i nuovi dati dell’ISTAT, che fissano la disoccupazione al 13% (cioè al peggior livello di questi anni, pari solo a quello del 1977). Lo stesso ISTAT colloca al 43% il tasso di disoccupazione dei giovani; mentre continua la recessione e, sostanzialmente, anche la stagnazione dell’economia e delle attività produttive.
È davvero togliendo di mezzo la maggior parte dell’art.18 che si otterranno risultati positivi per risolvere una crisi di queste dimensioni?
Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi
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