Orazione commemorativa per la cerimonia tenuta da Pio Serafin, membro del comitato direttivo dell’ISTREVI.
Vicenza, via Calderari – 10 gennaio 2015.
A nome dell’ANPI e dell’ISTREVI ringrazio tutti voi per la vostra numerosa partecipazione qui, oggi, a questo pellegrinaggio sul luogo dove 70 anni fa, il 12 gennaio 1945, fu spezzata la giovane vita di Dino Carta.
Un caro saluto ai parenti di Dino e particolarmente alle due sorelle Franca, qui presente, e Fanny e al fratello Carlo. Saluto gli studenti oggi intervenuti: le due classi della terza media dell’Istituto Farina, la quinta A del Liceo Pigafetta, e gli allievi dell’Istituto Rossi.
Questa commemorazione si svolge tre giorni dopo l’orrenda carneficina di Charlie Hebdo che ha voluto colpire la libera opinione di un giornale che è la misura di come la Francia faccia della laicità, della tolleranza, dell’uguaglianza e della libertà la sostanza della propria democrazia.
Ma per il totalitarismo fanatico la libertà è inconcepibile e, a maggior ragione, la libertà di espressione e la satira.
Quella libertà, che è l’essenza della nostra identità, è diventata il bersaglio di chi si serve della religione a fini criminali.
Questo fanatismo odia la nostra libertà, la nostra tolleranza, la nostra pluralità.
Da questa minaccia dobbiamo difenderci. Di fronte al massacro perpetrato vicino a piazza della Bastiglia –simbolo per eccellenza della libertà conquistata dalla Francia, nostra sorella latina– ci giunge con forza l’attualità del messaggio di Voltaire per il quale la decisione contro ogni fanatismo segna lo spartiacque tra civiltà e barbarie rendendo così il filosofo francese uno dei padri fondatori della nostra irrinunciabile identità europea.
Per colui che meglio rappresenta l’identità francese, la sua cultura spiritosa e allegra, visceralmente critica, lucida, vivace, sarcastica, versatile, che illustra perfettamente l’esprit français – che è anche quello di Charlie Hebdo – dobbiamo essere in permanente battaglia per il rispetto della persona umana, che ha diritto di essere riconosciuta, al di là delle differenze di civiltà e di razza così che per Voltaire la tolleranza deve essere l’obiettivo primo della lotta filosofica.
Dal 1939 al 1945, sei milioni di uomini sono morti nelle torture perché erano ebrei. L’Europa ha già pagato un tributo altissimo al fanatismo, al totalitarismo, al nazismo, per non sapere l’immensità del valore della propria democrazia e della propria libertà. Da quelle tragedie è nata la nostra Resistenza che ha poi saputo ispirare la nostra Costituzione.
Questa ha recepito quei valori di libertà e democrazia che adesso sono bersaglio del fanatismo islamico.
Il nostro dovere è quindi quello di difenderli perché la Costituzione spinge tutti noi a farci responsabili della sua attuazione invitandoci ad essere i suoi custodi come dimostra l’art. 3 secondo cui la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono il libero sviluppo della persona umana.
Dopo aver deposto le due corone d’alloro del Comune e dell’ANPI davanti a questa lapide, vorrei ricordare che una di queste, tre anni fa, è stata bruciata.
Chi ha appiccato il fuoco forse non sapeva che Dino era anzitutto un ragazzo di vent’anni che credeva nella libertà e nella democrazia.
70 anni dopo, siamo qui, sempre più numerosi anno dopo anno, per commemorare il suo sacrificio.
Carta aveva preso accordi con i partigiani della Brigata “Argiuna” ed era entrato nella Polizia ausiliaria nel gennaio del ’44 con l’intento di trasmettere informazioni su rastrellamenti, rappresaglie, appostamenti.
Per questo era stato sospettato e pedinato e un anno dopo era stato arrestato e imprigionato a Villa Girardi, la Villa Triste di Via Fratelli Albanese. Di qui riuscì a scappare da Via Fratelli Albanese.
Rino Pavan, vigile del fuoco, fu testimone della sua fuga disperata conclusasi qui dove ci troviamo.
Affidò il racconto di quella drammatica corsa sulla neve, mentre i fascisti lo stavano inseguendo, alla nipote Luisa Maria, allieva del Pigafetta, che raccolse la sua testimonianza per un concorso in cui vinse il primo premio.
I familiari poterono vedere il corpo all’ospedale: era denudato e per terra, in un angolo, c’era la sua uniforme che essi vollero conservare per 67 anni fino alla consegna, due anni fa, nel corso di una cerimonia al museo del Risorgimento e della Resistenza di Villa Guiccioli dove quei vestiti si trovano stabilmente esposti in una teca nella sala della seconda guerra mondiale.
Quella divisa porta i fori delle pallottole sulle maniche e all’altezza del cuore con le macchie del suo sangue.
Fori di sola entrata che fanno comprendere che il corpo trattenne i proiettili.
A ricordo del sacrificio di Carta la nostra città conserva tre lapidi che sono come una storia di pietra scolpita.
La prima è questa che abbiamo davanti a noi che contiene qualcosa che ci colpisce.
Questa lapide, posta a ricordo imperituro dell’atroce, vile, spietato assassinio di un ragazzo che aveva appena compiuto vent’anni e che cercava soltanto di scappare ai suoi criminali aguzzini ci dà un messaggio che è una grande lezione.
Carta fu ucciso da Piero Zatti e Osvaldo Foggi che quel 12 gennaio ‘45, mentre Don Antonio Frigo e Dino Miotti erano sottoposti alla tortura nella stessa Villa Girardi si contendevano il “merito” di averlo ucciso.
Ebbene quei due criminali, dopo la Liberazione, saranno condannati alla pena di morte nel ’46. L’anno dopo il Capo provvisorio dello Stato commuterà la pena di morte in ergastolo.
Successivamente la pena dell’ergastolo sarà ridotta alla pena di anni 19. Nel ‘51 la pena di anni 19 sarà ridotta a 7 anni.
Nel ‘54 la Corte d’Appello di Venezia ridurrà la pena per effetto di successivi condoni a ciascuno ad anni 5, mesi 8 di reclusione, sottoponendoli a libertà vigilata per amnistia. Foggi in particolare sarà scarcerato il 1° febbraio del ‘54.
Ebbene quei due criminali, dicevo, nella lapide di via Calderari diventano “fratelli”.
Ho fatto prima riferimento a Voltaire. Come non citarne qui quella sorta di preghiera a Dio con cui conclude il suo “Trattato sulla tolleranza” nella quale dice, tra l’altro: “Possano tutti gli uomini ricordarsi di essere fratelli”. C’è così, nelle poche parole di questa lapide, un messaggio di fratellanza che rende anch’esso l’unicità della vicenda di Dino Carta e del ricordo che ne vollero tramandare i suoi compagni partigiani.
QUI
RABBIA DEI FRATELLI
ASSOLDATI DALL’INVASORE TEUTONICO
SPEZZÒ LA GIOVINEZZA DI
DINO CARTA
VENTENNE.
I COMPAGNI DI LOTTA
VOLLERO ETERNATO L’EROICO MARTIRIO
PER L’IDEALE SUBLIME DELLA LIBERTÀ
N. 7-11-1924 M. 12-1-1945
C’è poi una seconda lapide posta dalla famiglia davanti alla tomba del cimitero maggiore con la statua scolpita da Giordani.
Quella lapide, tra l’altro, evoca Dino Carta con queste parole
RIPOSA
NELLA PACE DI DIO E NELLA LUCE DELLA GLORIA
O FIORE NOSTRO TRAGICAMENTE RECISO
MENTRE AFFRETTAVI CON L’OPERA
L’ALBA DELLA NOSTRA LIBERTÀ
In occasione della cerimonia di consegna della sua uniforme macchiata di sangue, alla presenza del sindaco, abbiamo voluto affermare che Dino, “fiore nostro” della famiglia Carta, è anche il “fiore nostro” di tutta la Città di Vicenza.
C’è poi una terza lapide che vogliamo ricordare, perché ci parla della gioventù, della vitalità e della voglia di vivere di Dino Carta.
È quella posta sulla tribuna dello stadio Menti che ricorda i caduti del Vicenza Calcio fra cui Dino Carta, uno dei due portieri della squadra che giocava il campionato regionale che aveva sostituito quello nazionale sospeso a causa della guerra.
Il Vicenza aveva giocato l’ultimo campionato del 42-43 in serie A, campionato che era stato vinto dal Torino, con Romeo Menti all’ala destra, il primo dei mitici cinque che lo fecero diventare Grande.
E Carta aveva giocato le partite tutte vittoriose contro il Padova, il Marzotto e il Lanerossi Schio assieme a Santagiuliana e Quaresima.
Mentre ricordiamo la morte di un partigiano morto per la causa patriottica vogliamo ribadire che i suoi ideali erano ben diversi da quelli dei suoi assassini che combatterono per una causa sbagliata servendo i nazisti occupanti del nostro paese, autori di stragi inenarrabili e torturatori dei nostri fratelli migliori.
“Civiltà contro barbarie, ha detto Ettore Gallo: questo fu l’immane conflitto dei popoli per la Liberazione. Se fummo costretti a combattere anche i fratelli italiani (vedete che anche Gallo parla di fratelli), lo fummo non per odio personale o di fazione, ma soltanto perché si erano messi a servizio dell’occupante.”
Come ebbe a dire Calamandrei:
“La Resistenza alla fine li spazzò via; ma non bisogna considerare quell’epilogo soltanto come la cacciata dello straniero.
Quella vittoria non fu soltanto vittoria contro gli invasori di fuori: fu vittoria contro gli oppressori, contro gli invasori di dentro.Perché, sì, veramente, il fascismo fu un’invasione che veniva di dentro, un prevalere temporaneo di qualcosa di bestiale che si era annidato o si era ridestato dentro di noi: e la Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi, che per vent’anni l’aveva soffocato.”
A 70 anni dall’evento dell’uccisione di Dino Carta e da quelli di tutta la Resistenza occorre riflettere sul perché ricordiamo ancora eventi ormai lontani nel tempo.
Ed è dalla Germania e dal suo massimo rappresentante che ci è giunto poco più di un anno fa l’appello più autorevole a non dimenticare infinite tragedie come quella del giovane partigiano vicentino.
Così vogliamo ripetere anche qui, perché esse valgono perfettamente anche per Dino Carta, le parole pronunciate da Angela Merkel a Dachau in occasione della prima visita di un cancelliere federale tedesco nell’unico lager che rimase funzionante dall’inizio alla fine del regime nazionalsocialista.
“Quanto qui accadde torna nel presente, con tutta la sua carica di monito e memoria.
Per noi è dovere sapere e ricordare quanto qui accadde: il ricordo e la memoria devono essere tramandati di generazione in generazione.I giovani devono e dovranno imparare come lottare contro le tendenze estremiste. E anche loro, giovani di oggi, dovranno un giorno tramandare questa memoria e queste lezioni ai loro figli e ai loro nipoti.”
Dalla Resistenza che anche oggi celebriamo commemorando la morte di Dino Carta è nata la nostra Costituzione che fu il frutto del grande dibattito svoltosi in seno all’Assemblea Costituente nella quale le forze politiche e democratiche seppero scrivere principi e valori su cui poggia la legge fondamentale della nostra Repubblica.
Nella Costituzione, nel patriottismo costituzionale, troviamo le radici dell’identità nazionale con il recupero delle libertà perdute e con la conquista di nuovi diritti che per vent’anni erano stati negati.
Soltanto l’antifascismo, la Resistenza, la Liberazione possono spiegare perché partiti già allora schierati in una contrapposizione destinata a durare per decenni siano stati capaci di non dividersi.
Ma la nostra Costituzione, per essere fedele a se stessa, ci chiama anche a trasformazioni, come quella del Senato attualmente in discussione.
E tuttavia, nel momento in cui Governo e Parlamento mettono mano ad una riforma costituzionale tanto importante e necessaria creando di fatto un regime monocamerale che rafforza il potere esecutivo attenuando i poteri di controllo del potere legislativo, la classe politica non sembra essere all’altezza del compito.
Così in questo momento è spontaneo ritornare all’opera dei costituenti per rilevarne il ben diverso spessore umano, culturale e politico.
Eppure anche quella classe politica aveva tante ragioni per essere considerata poco preparata per scrivere la nostra Costituzione.
E ciò per l’età di tanti giovani come Jotti, Scalfaro, Dossetti, Moro.
Per molti dei maggiori uomini politici l’unica preparazione era stata quella del carcere come per Terracini o Pertini o dell’esilio come per Saragat, Togliatti, Nenni oppure quella di un paese con un regime tirannico nel quale la cultura politico-costituzionale era rimasta bloccata per vent’anni.
E infatti gli uomini politici democratici diedero talvolta l’impressione di essere frenati dalla loro insufficiente preparazione tecnico-giuridica come nel caso della mancata abrogazione delle leggi fasciste che rimasero tutte al loro posto oppure proprio nella creazione del bicameralismo paritario.
Vero è che a fronte di questi limiti dei padri costituenti vi furono due fondamentali elementi che costituirono invece la loro forza e cioè l’antifascismo e l’esperienza della guerra, della violenza, della sofferenza, della miseria.
Da lì nacque l’architrave dell’ordinamento giuridico e dell’assetto istituzionale che contiene le radici dell’identità nazionale che non è solo eredità storica ma recupero delle libertà perdute, conquista di nuovi diritti e programma per il futuro.
Il nostro Paese è da diversi anni preda di una gravissima crisi economica e finanziaria nella quale il tasso di disoccupazione è ai massimi livelli del dopoguerra. In questi momenti di enorme difficoltà occorre tornare alla nostra Costituzione e trovare in essa la strada obbligata da seguire.
In questa situazione nella quale la disoccupazione giovanile è balzata questa settimana al 43,9% è stata appena approvata una riforma del mercato del lavoro che secondo taluni sarà una rivoluzione, mentre per altri non creerà posti di lavoro.
A fronte di ciò occorre ribadire che il riferimento deve essere quello della nostra Costituzione nel cui primo articolo è scritto che l’Italia è una Repubblica “fondata sul lavoro” con una collocazione che assume un valore simbolico che ne sottolinea il rilievo.
Con questa formula –ha scritto Mortati- si è inteso mostrare il distacco dalle Costituzioni del passato e “invertire il valore ai due termini del rapporto proprietà-lavoro, conferendo la preminenza a quest’ultimo sul primo.”
E ciò non va dimenticato nel momento in cui si discute e si valuta se tale riforma avvantaggi più le imprese o i lavoratori e, in ogni caso, essa genera soddisfazione da parte degli imprenditori e opposizione da parte dei sindacati.
Non va infine dimenticato che ogni giorno vengono alla luce scandali per l’uso privato di risorse pubbliche con una sensazione di impunità.
Davanti alla corruzione oppure alla sfrenata ambizione personale o al protagonismo individuale è evidente che non era questo il mondo che volevano coloro che hanno partecipato alla guerra di Liberazione e che i padri costituenti volevano consegnare ai loro nipoti.
Così tornano alla mente le parole di Norberto Bobbio secondo cui “l’Italia non è diventata quel paese moralmente migliore che avevamo sognato: la nuova classe politica, salvo qualche rara eccezione, non assomiglia a quella che ci era parsa raffigurata in alcuni protagonisti della guerra di liberazione, devoti al pubblico bene, fedeli ai propri ideali, intransigenti, umili e forti insieme.”
Alle parole di diversi anni fa di Bobbio possiamo unire quelle recentissime del presidente della Repubblica nel messaggio di fine anno:
“Sì, dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società.
E bisogna farlo insieme, società civile, Stato, forze politiche senza eccezione alcuna. Solo riacquisendo intangibili valori morali la politica potrà riguadagnare e vedere riconosciuta la sua funzione decisiva.”
Oppure possiamo ricordare quelle pure recenti di Ilvo Diamanti il quale, affrontando il tema dell’etica in politica, ha ricordato che:
“Sono passati più di 30 anni da quando Enrico Berlinguer sollevò la questione morale. Il problema che in Italia rischia di soffocare la nostra democrazia.
In Italia – ha detto Diamanti – sembra che la questione morale non sia mai finita.
D’altronde in Italia la società sembra non abbia mai sviluppato gli anticorpi della democrazia.
Perché sul senso civico prevale piuttosto il senso cinico: l’assuefazione ad ogni scandalo, ad ogni degenerazione pubblica.
Mentre in politica più che l’etica conta l’estetica.
Così al posto della buona politica cresce l’antipolitica.
E la questione morale riemerge senza soluzione di continuità o meglio senza soluzione.”
In un mondo profondamente cambiato rispetto al 1945 non hanno perso di validità e attualità le grandi motivazioni ideali della Resistenza attraverso le quali l’Italia seppe rialzarsi dal crollo dell’8 settembre del ’43 e farsi protagonista del suo riscatto e della sua liberazione.
Affermare la dignità di uomini liberi contro le dittature, le violenze, le guerre.
Questo volevano i partigiani come Dino Carta che hanno combattuto per ridare dignità, indipendenza e libertà all’Italia e il cui sacrificio siamo qui nuovamente a ricordare.
La memoria della morte di Dino Carta deve essere tramandata, perché anche qui sono le radici della nostra libertà, anche qui sono le radici della nostra democrazia, anche qui sono le radici della nostra Costituzione repubblicana.
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