Scrivere qualcosa, in questo settantacinquesimo così particolare, mi induce a una riflessione, un po’ a distanza, sulla mia esperienza personale. Intendo l’esperienza che ho avuto conoscendo diverse partigiane venete, vicentine in particolare, incontrandole ai nostri convegni, intervistandole, scrivendo di alcune la storia. Averle conosciute è stato un privilegio che porto nel cuore. Di loro mi resta l’intelligenza e la lucidità dello sguardo sulla realtà contemporanea, e il coraggio di un’incrollabile, costruttiva, fiducia civile.
Da poco tempo si è dato rilievo alla partecipazione delle donne alla Resistenza, perchè da sempre le donne non hanno fatto parte della storia ufficiale, perciò la loro è stata una Resistenza taciuta, questo è il titolo di un libro importante. Dunque di loro abbiamo soprattutto fonti orali: i racconti di questa esperienza. Narrazioni recenti, perchè le partigiane hanno scelto per tanti anni la reticenza.
Ora sappiamo. Conosciamo le loro azioni ed imprese, che hanno richiesto un doppio coraggio: la scelta di opporsi al nazismo e al fascismo e la rottura di antichi cliché. E lo stile, anche, è tutto loro, nuovo e inventato.
Scelgono perchè hanno padri mariti o compagni impegnati nella Resistenza, o perchè dalla famiglia o con gli amici hanno imparato a non accettare, o perchè come dice Teresa Peghin, partigiana: “non si poteva essere indifferenti in quel momento là, che si vedeva la gente che correva, che si nascondeva, dopo l’otto settembre, che veniva dalla Francia, discalza, senza scarpe… c’erano tanti fuggiaschi che passavano di lì. E allora si dava assistenza, … si cercava di aiutare quelli che erano in pericolo…così” ( in Voci di partigiane venete)
L’otto settembre sono le donne, che per prime, decidono di vestire, nutrire e nascondere i nostri soldati allo sbando in 650000 verranno deportati nel Reich-. Per lo più giovanissime, sono capaci di imbracciare il fucile e combattere in montagna, accanto agli uomini; di percorrere chilometri in bicicletta; o di incontrare sconosciuti, che devono riconoscere attraverso codici stabiliti. Sono donne che indossano il coraggio, forse con l’improntitudine della giovinezza, ci dice Lina Tridenti, partigiana, ma che in realtà vengono alla ribalta e affrontano, senza perdere la dolcezza delle relazioni amate, con padri, fratelli, mariti, figli.
Nel suo libro, In guerra senz’armi, Anna Bravo collega la Resistenza delle donne alla categoria di Resistenza civile, una categoria interpretativa più ampia e complessa di quella di Resistenza in armi, eticamente forte. Civile è quella Resistenza, per lo più non armata, per lo più non organizzata da partiti, dunque non legata ad ideologie, che è graduale presa di coscienza negli animi dei cittadini; piccola azione di disturbo, anche solo individuale o di gruppo; capacità di leggere il presente al di là di roboanti coperture; intraprendenza coraggiosa della non accettazione, del superamento dell’indifferenza; rischio, per la difesa della vita o della dignità propria o di altri.
Molte persone, spesso semplici, inermi, forse sprovvedute, hanno, a un certo punto, scelto in modo diverso, dinanzi alla barbarie e all’oppressione, all’ingiustizia e alla ferocia, per una legittimità altra. E qui le donne irrompono con una forza imprevista e inaspettata (che poi non è nè imprevista né inaspettata) rispetto all’immaginario che forse loro stesse hanno di sè. Infrangono gli stereotipi: tessono reti informali di solidarietà e di aiuto, con amiche, parenti, vicine di casa; mescolano pubblico e privato, ospitando nelle loro case clandestini fuggiaschi, o riunioni di capi partigiani; usano gli stessi stereotipi di genere per abbindolare il nemico; nascondono i messaggi nel corpo.
Per lo più scelgono ruoli non violenti, ma conoscono le armi e alcune sono capaci di sparare. Acquistano consapevolezza e diventano ardite. Ancora una volta Anna Bravo mi aiuta ad approfondire alcune questioni. Nella prefazione al libro La guerra alla guerra ci invita a non contrapporre Resistenza civile, inerme, e lotta armata, perché la Resistenza è fatta di molte resistenze, è fenomeno complesso, ed è importante trovare un sostrato comune alle molte resistenze. Sostrato forse rintracciabile nel concetto di “riduzione del danno”, che, scrive, “prende atto dell’esistenza del male senza lo spirito di crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza e per la sua versatilità, che può aiutare a rompere la contrapposizione fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall’altro”. Concetto prezioso, anche per noi, nell’oggi, che riconosce agli uomini combattenti, ai partigiani, l’intelligenza della mediazione e della cura.
Così come delle donne partigiane dobbiamo riconoscere l’intelligenza, la forza e il valore, che è giusto continuare ad attribuire loro -scrive Anna Gasco- “senza riserve, perchè la svalutazione nei confronti del nostro sesso è sempre in agguato; in molti paesi è dichiarata e agita alla luce del sole e con il consenso della legge; altrove compare strisciante e corrosiva dove meno lo si aspetta e, nelle nostre stesse vite, sottile e mascherata, ma sempre ugualmente pericolosa e sofferta”.
Simonetta d’Errico
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