Albert Camus in un romanzo che ho riletto in questi giorni, scrive che gli abitanti di Orano erano “incagliati a mezza via tra gli abissi e le cime, ondeggiavano più che non vivessero, abbandonati a giorni senza direzione e a sterili ricordi, ombre erranti che non avrebbero potuto prendere forza che accettando di radicarsi nella terra del loro dolore” (La peste, Bompiani, 1996, or. 1948, p. 56). Attraversando il dolore che stiamo vivendo dobbiamo imparare la lezione, secondo l’antica sintesi del pàthei màthos (la conoscenza che deriva dalla sofferenza) ed il moderno, anzi l’attuale, messaggio che ovunque risuona.
A tal proposito, una delle trasmissioni più belle e utili che abbiamo potuto ascoltare è stata quella di La lingua batte, in Radio3, intitolata “Lessico della Tenacia” (la si può riascoltare scaricando l’app di RaiPlayRadio). In essa varie persone del mondo letterario e artistico hanno potuto commentare brevemente una parola da loro scelta per questa vicenda (sono state scelte, ad esempio: Armonia, Crisi, Natura, Resistenza, Saldo; uno delle più intelligenti, a mio avviso, è stato il commento alla parola Clandestinità da parte di Vinicio Capossela). La cantante Patrizia Laquidara – che, come me, alcuni di noi conoscono – ha scelto “La giusta distanza”, osservando come questa parola – che oggi è diventata una pratica sociale obbligatoria – ci insegna ad abitare il mondo in maniera non possessiva: il virus, infatti, viene a segnalarci, diceva la cantante siculo-vicentina, la malattia della nostra possessività. Poiché non si è mai parlato di malattia tanto quanto in queste settimane dovremmo davvero chiederci – aggiungo io – quali siano le nostre malattie: psicologiche, relazionali, spirituali, sociali. Un’altra tra queste – tematizzata dalla scrittrice Silvia Avallone – che aveva scelto la parola “L’invisibile” – è la visibilità, ossia il bisogno, che talora ci prende, di essere visti, se non proprio di essere noti. Mentre, diceva la scrittrice, ciò che è necessario è proprio il rapporto con ciò che ci abita e che è invisibile, vale a dire, traduco io, la nostra interiorità. L’essere, infatti, proiettati costantemente al di fuori di noi, nell’esteriorità, se non addirittura nella materialità o, meglio, nel materialismo, è forse la malattia più grave di cui l’epoca contemporanea ha ammorbato il pianeta. Noi compresi.
Riequilibrare il dentro con il fuori è il movimento corrispettivo e necessario quanto quell’alto e basso di cui scrivevo qualche giorno fa.
Peccato che nessuno degli intervenuti abbia scelto la parola contagio, così in uso oggi. Essa deriva dal latino con-tangere, come con-tatto. La situazione che stiamo vivendo non viene a ricordarci che il nostro toccare deve essere sempre svolto con tatto, ossia con spontaneità e sincerità, con discrezione e delicatezza, ma anche con semplicità e trasparenza, con calore e forza? Allora il contatto, se vissuto e praticato così, diventa contagioso. Di bene. Di salute. Di pace.
L’assenza di strette di mano e di abbracci sembra rivelare proprio il loro grande valore, e, come tutte le cose della vita, ne scopriamo sia lo spessore che le valenze quando ci mancano. Come oggi. In particolare l’impedimento di vedere dal vivo e, soprattutto, in forma ravvicinata, i volti delle persone care – che neppure l’utilizzo delle videochiamate o di skype può sostituire completamente – ci avverte dell’importanza e della sacralità del volto, enigma e svelamento di ogni essere umano, luogo di incontro nella fraternità e di appello, conseguente, alla responsabilità.
Solo guardando il volto di chi soffre, in effetti, noi ci com-muoviamo, ossia ci muoviamo insieme, nella condivisione del dolore e nell’anelito alla liberazione, per un soccorso.
“Che bello sentire la tua voce!”, mi ha scritto una persona da Bergamo, dopo un mio messaggio vocale inviato a diversi amici. Sì, anche la voce, con il volto, non solo ci costituisce e ci caratterizza, ma anche ci permette di lanciare un ponte verso il fratello e la sorella, un ponte che superi le nostre solitudini. In particolare quelle di coloro che non vengono guardati, perché il loro volto e la loro stessa presenza ci sono d’impiccio.
Paolo Rumiz nel suo “Diario della quarantena”, in la Repubblica, qualche giorno fa, annotava: “21 marzo. Sveglia alle tre di notte. Insonnie dell’età. Leggo a letto con lampada frontale per non disturbare. Grande quiete. Forse per la prima volta sento di accettarmi completamente, con le mie magagne e la mia vitalità in declino, e di essere vicino al nocciolo di me stesso. Quanta inattesa umanità nei messaggi ricevuti finora! Molti legami ‘in sonno’ si sono riattivati, a sorpresa, e la domanda «come stai» è uscita dalla sua ripetitività rituale. Riemergono volti antichi e cari e perduti. Sì, noi siamo tutti coloro che abbiamo amato.”
La separazione è un’allucinazione, un’illusione destinata a cadere, ci aveva insegnato Carl Gustav Jung. Altro che prendere le distanze! La relazione si nutre della vicinanza, della prossimità. O non è.
Questa è la Quota media o normale della nostra esistenza. Il resto è anormale, ossia fuori della norma, fuori della sanità. Malato, appunto. Solo quando viviamo da fratelli e sorelle siamo sani, e salvi. Al di fuori siamo perduti.
“C’è una frase di Marguerite Duras che l’insistenza sulla guerra mi ha ricordato. È un paradosso e dice così: “Già si intravede la pace. È come un grande buio che cala. È l’inizio dell’oblio”. Dopo una guerra tutti si affrettano a dimenticare, ma qualcosa di simile accade con la malattia: la sofferenza ci pone in contatto con verità altrimenti offuscate, mette in ordine priorità, sembra ridare volume al presente, ma non appena la guarigione sopraggiunge queste illuminazioni evaporano”: così lo scrittore Paolo Giordano in questi giorni.
Una malattia è anche dimenticare, scordare la lezione, soprattutto. Oppure, al contrario, non imparare ad andare oltre, a ripartire, a manifestare la nostra costanza e speranza avviando qualcosa di nuovo, magari di inedito, certamente di sano.
A proposito di sanità, infine, attenzione al linguaggio, come ho già evidenziato: “siamo in guerra”, “coloro che sono in trincea”, ecc. Senza volerlo un linguaggio simile, dato per scontato tra l’altro nella sua evidenza, è una giustificazione, retrodata e prospettica, della guerra.
Proprio nei momenti di crisi, anche nelle piccole – che, poi, piccole non sono – vicende quotidiane, relazionali in particolare, quando vengono usate parole inadeguate o parole approssimative o parole ossessivamente reiterate, la matassa si ingarbuglia, denunciando un’incapacità di pensiero, il quale non si dimostra – pur tenendo dei condizionamenti delle emozioni ed elevando i sentimenti migliori – all’altezza della situazione da affrontare e da superare.
Di più: il pericolo di militarizzare tutta la vita, e la società stessa, è del tutto evidente. Quando si militarizza il linguaggio – che andrebbe, invece, smilitarizzato, come la cultura, la politica, l’economia, le religioni, ecc. – la china è quella.
“Cambiamo? Cosa? Come?”, si domandava opportunamente l’amico Alberto Peruffo, in occasione di uno scritto sull’inquinamento Pfas, qualche giorno fa. Cambiare il linguaggio è un’altra delle occasioni che le crisi ci offrono, sia per una comprensione effettiva del reale sia per un’assunzione di esso con categorie nuove, più aderenti alla realtà stessa.
Maurizio Mazzetto
Franco Battiato
Povera Patria
Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos’è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore…
ma non vi danno un po’ di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà
si che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po’ da vivere…
La primavera intanto tarda ad arrivare.
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