Auschwitz – Salvatore Quasimodo

AUSCHWITZ

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,

amore, lungo la pianura nordica,

in un campo di morte: fredda, funebre,

la pioggia sulla ruggine dei pali

e i grovigli di ferro dei recinti:

e non albero o uccelli nell’aria grigia

o su dal nostro pensiero, ma inerzia

e dolore che la memoria lascia

al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo

Ragioni nella nostra sorte, qui,

tu, tenera ai contrasti della mente,

incerta a una presenza

chiara della vita. E la vita è qui,

in ogni no che pare una certezza:

qui udremo piangere l’angelo il mostro

le nostre ore future

battere l’al di là, che è qui, in eterno 

e in movimento, non in un’immagine

di sogni, di possibile pietà.

E qui le metamorfosi, qui i miti.

Senza nome di simboli o d’un dio,

sono cronaca, luoghi di terra,

sono Auchwitz, amore. Come subito

si mutò in fumo d’ombra

il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!

Da quell’inferno aperto da una scritta

Bianca: “il lavoro vi renderà liberi”

Uscì continuo fumo

Di migliaia di donne spinte fuori

All’alba dai canili contro il muro 

Del tiro a segno o soffocate urlando

Misericordia all’acqua con la bocca

Di scheletro sotto le doccie a gas.

Le troverai tu, soldato, nella tua

Storia in forme di fiumi, d’animali,

o sei tu pure cenere d’Auschwitz,

medaglia di silenzio?

Restano lunghe trecce chiuse in urne

Di vetro ancora strette da amuleti

E ombre infinite di piccole scarpe

E di sciarpe d’ebrei: sono reliquie

D’un tempo di saggezza, di sapienza

Dell’uomo che si fa misura d’armi,

sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto

Marcirono e pietà, sotto la pioggia,

laggiù, batteva un no dentro di noi,

un no alla morte, morta ad Auschwitz,

per non ripetere, da quella buca

di cenere, la morte.

Salvatore Quasimodo