TITTA

Titta si aggirava in quel piccolo pezzo di terra davanti alla casa. Aveva tagliato l’erba da poco e se lo guardava fiero, camminando avanti e indietro. Restava là ritto in piedi con lo Sten in mano, col caricatore inserito sulla sinistra della canna. L’arma l’aveva tenuta dopo la guerra, anche se tutti noi gli avevamo detto di consegnarla alle autorità. Non c’era stato verso.
Ora quel vecchio testardo, che si reggeva ancora bene sulle gambe, era attento a qualsiasi rumore che provenisse dal bosco. A volte capitava che finché eravamo tutti ospiti da lui, si alzasse d’improvviso, prendesse dalla cassapanca il mitra e corresse fuori a controllare. Anche noi nipoti lo prendevamo in giro richiamandolo dentro: “Dai nonno non c’ è nessuno!”. Le donne del paese pensavano che stesse lentamente perdendo il senno, anche se di fatto non era mai stato uno dal carattere semplice.
Era fine novembre, il tempo degli accoppiamenti dei cinghiali, e piu’ di qualche grosso maschio correva e scavava col muso il terreno davanti alla casa. Al Titta avevano consigliato di tirare, a quel grosso cinghiale con un fucile “sovrapposto”, ma il vecchio capo partigiano preferiva il suo Sten.
“È infallibile con la sua raffica fino ai venti trenta metri. Te lo posso garantire. Non mi interessa colpire la bestia oltre quella distanza. La voglio sentire vicina. “Ogni tanto sparava anche di notte, dalla camera da letto al secondo piano della casa, svegliando parte del paese. Gli pareva di sentire il branco muoversi e grufolare nella sua terra, ma quelle volte usava la doppietta. “Li voglio solo allontanare” ci diceva sorridendo. Mio padre aveva qualche dubbio sull’efficacia di quei tiri dalla finestra, e soprattutto col buio, ma non osava contraddirlo. “Papa’ la gente qui attorno si preoccupa, sente degli spari nella notte, si spaventano.”
Ormai era da tempo che quel cinghiale si aggirava allo scoperto, fuori dal bosco. Era spavaldo,col suo manto tutto nero, arrivava a sfidare il nonno quasi sull’uscio di casa. Proprio come nel racconto di Mellville: Acab e Moby Dick lassu’ in collina tra le vigne e il bosco. Gli occhi e la mente di Titta rivedono spesso vecchie storie di guerra, che ci ha raccontato mille volte. E’ qualcosa che si ripete nella sua mente all’infinito, come un ingranaggio inceppato.
“Non si deve andare…” ripete a volte da solo.
“Ma Titta è un’intera divisione di fascisti che si vuole arrendere; vogliono solo incontrarci per consegnarci le armi.”
“Scolteme ben, che i vegna fora uno par volta da la caserma”.
“Hanno perso la guerra no? E’ finita per loro.”
“Appunto. E’ una trappola!”
La bestia si muove al crepuscolo per confondersi nell’oscurita’. È pronto ad attaccare, deciso a vendere cara la pelle fino all’ultimo giorno di quella guerra. Li fuori c’è Titta che lo aspetta col suo Sten carico. La luna tonda di luce ogni tanto è coperta dalle nuvole dando l’illusione del buio. Sono uno contro l’altro, anche se il nemico è ancora troppo lontano. In questi casi bisogna aver pazienza e sangue freddo. “La prima raffica xe quea piu’ importante, ricordate sempre”. I due nemici si annusano, si sentono, pronti a scattare per primi. Titta si alza in piedi e scarica i trentadue colpi del suo Sten a raffiche di quattro colpi “seno’ el parabeo te scampa via.” La bestia enorme fa solo pochi metri, poi crolla sotto il suo stesso peso. Davanti al Titta, che appoggia l’arma fumante sulla spalla , esala rumorosamente l’ultimo respiro.
“Quel maledetto giorno non si doveva andare…”

Dedicato a Giovanni Carli“Ottaviano” ; Giacomo Chilesotti “Nettuno-Loris”; Attilio Andreeto “Sergio”

Cosimo Melanotte