Pubblicazione riservata agli iscritti A.N.P.I. della provicia di Vicenza
A cura di Michele Zanna
Grafica e impaginazione di Giorgio Fin
Per molto tempo l’immaginario di molti europei colti si è nutrito e intrecciato con le vicende del popolo che ora chiamiamo Rom, Sinti e Camminanti, ma che un tempo anche grandi intellettuali chiamavano “zingari” senza voler dare a questo termine una connotazione né di esclusione, né tanto meno di disprezzo. Una parte minoritaria certo, ma assai attenta, della cultura europea vedeva nei “bohèmiens”, nei “gitanos”, uno specchio misterioso e deformato della propria stessa cultura. Da parte di costoro l’intento era perlopiù quello di voler prestare un aiuto a “quei vagabondi in cammino perenne nel deserto della vita”. Charles Baudelaire, per fare solo un esempio di questa tipologia di intellettuali, scrisse nel 1848 una bellissima poesia, dal titolo “La Carovana” che nessuno volle pubblicare. A quel punto dopo averne modificato il titolo in “Zingari in Viaggio” la inserì nei “Fiori del male”: un esplicito omaggio ad un popolo in grado di rimanere libero e fiero in mezzo a un’Europa umiliata dalle nuove tirannie.
La poesia è molto breve e vale la pena riportarla integralmente:
La tribù profetica dalle pupille ardenti,
ieri s’è messa in viaggio caricandosi i piccoli sulle spalle e offrendo ai loro fieri appetiti
il tesoro sempre pronto delle mammelle pendenti.
Gli uomini vanno a piedi sotto armi lucenti
di fianco ai carrozzoni dove i loro si rannicchiano, volgendo al cielo gli occhi appesantiti
dall’oscuro rimpianto di non aver speranze.
Dalla sabbia del suo rifugio il grillo, vedendoli passare, moltiplica il suo canto Cibele, che li ama, stende tappeti erbosi
fa fiorire il deserto e zampillare la roccia innanzi a quei viandanti ai quali si spalanca l’impero familiare delle tenebre future.
Le tenebre future puntualmente si sarebbero aperte nei decenni successivi in termini di esilio, pogrom, ipocrita accettazione, genocidio culturale e infine da parte dello sterminio nazi- fascista. Il nostro nono numero di “Resistenza oggi” parte proprio dallo sterminio dimenticato di migliaia di Rom e Sinti.
Porrajmos tradotto letteralmente significa «grande divoramento» in lingua romanì: ricorda il genocidio, perpetrato dai nazisti e dai loro collaboratori di tutta Europa, a danno di queste popolazioni. Solo nel 2015 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per celebrare una Giornata europea per commemorare ogni anno il Porrajmos. Il 2 agosto 1944 è diventata una data simbolo: ricorda infatti l’uccisione nelle camere a gas di tutti gli “zigani” presenti ad Auschwitz-Birkenau. Una ricorrenza da ricordare e celebrare, perché resa ancor più tragica dal fatto che i pregiudizi e le discriminazioni che prepararono la strada allo sterminio sono presenti ancora oggi nelle nostre società.
Per questo motivo il nostro itinerario si dipana per altri tre percorsi che, come da tradizione, possono essere letti anche autonomamente l’uno dall’altro. Un breve richiamo alla storia del “popolo del vento”, un approfondimento più consistente in riferimento alla letteratura ed al cinema, infine una serie di reportage e inchieste che richiamano la situazione odierna di Rom e Sinti in Italia e in alcune zone dell’Europa.
Entriamo in punto di penna, da gagè (in lingua romanì: “il non essere rom o meglio il non appartenere alla dimensione romanì”), in questo mondo che non ci appartiene e divide gli studio- si più avveduti persino ad iniziare dalle stesse denominazioni utilizzate. I Rom e Sinti possono essere infatti suddivisi in miriadi di gruppi, tanto che secondo Carlo Stasolla, dell’Associazione 21 luglio, bisognerebbe parlare più correttamente al plurale di “le comunità Rom” più che della comunità Rom. Invece secondo Nazzareno Guarnieri, della Fondazione Romanì, è corretto parlare di “popolazione romanì”(al singolare) e di “comunità romanes” (al plurale, da cui ab- breviato, comunità rom). Infine secondo l’antropologo Leonardo Piasere, la distinzione di base resta quella tra Rom e Gagé, o meglio tra la dimensione romanì e la dimensione gagikanì (cioè dei gagè).
Il nostro tentativo consiste nel guardare con rispetto, curiosità, ma anche con un certo timore, in questo prisma che vive spesso tra isolamento e discriminazioni. Un prisma attraverso il quale guardare al resto del mondo sempre più pieno di ghetti, campi, muri, filo spinato, frontiere: una umanità dolente alla quale guardiamo con sincero dolore. Fra i più sensibili talvolta infatti è percepibile la sensazione che tutti noi stiamo diventando un “popolo in viaggio”, proprio come i Rom di ogni latitudine: un viaggio simbolico, tra crisi ambientali sempre più gravi e varianti di Covid19 sempre più pericolose, tra ingiustizie crescenti e nuove povertà, tra guerre di ogni tipologia e terrorismo diffuso, accatastati su vagoni che potrebbero portarci verso “l’impero familiare delle tenebre future”.
PORRAJMOS: COSA FU IL GENOCIDIO DI ROM E SINTI
Al termine Porrajmos, talvolta si alterna quello di Samudaripen, cioè: “tutti morti”, ma probabilmente non sapremo mai con esattezza quanti furono i rom e i sinti a essere uccisi; più di un milione, secondo le stime più recenti. Per molto tempo nella storia contemporanea Rom ed ebrei hanno condiviso la stessa condizione di minoranze perseguitate. Nell’Europa dei primi decenni del Novecento le stesse ordinanze colpivano gli uni e gli altri. La persecuzione nazifascista aggredisce le due comunità con le stesse modalità: dai primi decreti con valore territoriale, alle leggi speciali che sanciscono la discriminazione, fino allo sterminio nei campi di concentramento (Bergen- Belsen, Sachsenhausen, Buchenwald, Dachau, Mauthausen e Ravensbrück), passando per i ghetti (Lodz, Varsavia, Siedle, Radom, Kielke), i massacri di massa come quello avvenuto a Bab- bij Jar, oppure le fucilazioni da parte delle Einsatzgruppen ad esempio in Crimea, per finire con le camere a gas di Belzec, Sobibor, Treblinka.
I confronti però finiscono con la sconfitta del nazifascismo: lo sterminio degli ebrei, la Shoah, ha trovato sia pur lentamente con il trascorrere dei decenni un suo riconoscimento, un suo risarcimento morale. Oggi possiamo contare su una mole sterminata di studi e un moltiplicarsi
di iniziative: una vera e propria politica della memoria. In questi ultimi anni dall’interno stesso della comunità ebraica si sono levate voci di studiosi che parlano apertamente di un abuso e strumentalizzazione della memoria, di sacralizzazione e banalizzazione della Shoah.
Viceversa la storia del Porrajmos, come del resto quella dei Testimoni di Geova, degli omosessuali, degli antifascisti, dei milioni di slavi, aspetta ancora una trattazione completa e sistematica. Non si può certo parlare di una tradizione storiografica, ma molto più semplicemente di qualche studio da parte di storici sensibili all’argomento. I libri di testo scolasti- ci nelle migliori delle ipotesi trattano il tema a piè di pagina e quindi i livelli di conoscenza sullo sterminio dei Rom sono ancora oggi particolarmente bassi. Ecco perché il nostro per- corso si apre con ben quattro schede dal taglio decisamente divulgativo, ma con un loro rigore. I siti della “treccani.it”, di “storiaxxisecolo.it”, del “post.it” e dei “Figli della Shoah” riportano le informazioni fondamentali che tutti dovrebbero conoscere: lo fanno con una sensibilità diversa e soffermandosi su alcuni dettagli.
Il volume di Carla Osella invece, «Rom e Sinti. Il genocidio dimenticato», narra le storie raccolte durante un viaggio, lungo quaranta- mila chilometri, tra i campi di sterminio sparsi in tutta Europa. Carla Osella, sociologa e presi- dente dell’Associazione Zingari Oggi, ha svolto una ricerca sul campo durata ben 7 anni sul massacro dei nomadi. “Ho attraversato l’Europa, dall’Austria alla Finlandia, visitato 40 città, percorso oltre 50mila chilometri con il camper e la macchina per ricostruire attraverso le testimonianze dei sopravvissuti quello che gli zingari hanno subìto durante la seconda guerra mondiale”. Nella parte antologica riportiamo una recensione apparsa sul quoti- diano “il Manifesto” nel 2013 e una interessante intervista sul “Fatto quotidiano” del 2016. Il tentativo è quello di dar voce ai testimoni di- retti dello sterminio: «Di solito siamo noi a parlare di loro – dice Osella – mentre questa volta ho voluto che fossero loro a raccontarsi». Il libro di Guenter Lewy, «La persecuzione nazista degli zingari», risale al 2002. Più che un vero lavoro di ricerca sul piano storico, l’autore organizza e riassume molte delle informazioni raccolte negli ultimi decenni. Il limite maggiore del libro consiste nel minimizzare le motivazioni razziali che condussero allo sterminio dei Sinti e Rom. “Il che lo porta a separare in modo drastico – e poco convincente – il destino degli zingari da quello degli ebrei”. Tesi che alla luce delle ricerche più recenti può essere considerata sostanzialmente errata.
Dario Fo e Marco Garofalo ricostruiscono con due libri diversi – rispettivamente “Razza di zingaro” e “Alla fine di ogni cosa” – la storia di Johann ‘Rukeli’ Trollmann, un campione di pugilato. Nel periodo tra ottobre 1929 e maggio 1933, il nostro eroe vince 29 incontri su 52 disputati, ma ben presto inizia la persecuzione da parte dei nazisti. La sua vita avventurosa, molto ben raccontata, terminerà il 9 febbraio 1943 nel campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo. Il libro di Alessandro Cecchi Paone, «La rivolta degli zingari» racconta in modo semplice la rivolta del maggio 1944 nel Block II di Auschwitz-Birkenau. Anziani, donne e bambini decidono di combattere pur di non obbedire all’ordine di liquidare l’intero settore. Colti di sorpresa, i soldati tedeschi impiegarono molto tempo prima di riuscire a portare a termine la soluzione finale: nell’agosto del 1944. Giaco- mo «Gnugo» De Bar, nel suo «Strada, Patria Sinta», racconta la storia dei Leoni di Brada Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. Di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Il nostro percorso si conclude con alcuni consigli di lettura per eventuali approfondimenti e con l’inno Gelem Gelem che in lingua romané significa “Ho camminato … e camminato”.
E di cammino la storia del Porrajmos deve farne tanta ancora per innalzare il livello di coscienza collettiva su queste vicende. Basti pensare che nella Germania federale solo nel 1979 c’è stato un riconoscimento ufficiale della persecuzione razziale dei Rom. Prima di quella data le tantissime misure prese prima del 1943 contro questa minoranza erano state considerate legittime, in quanto prese contro persone responsabili di azioni criminali non dovute a pregiudizio e odio razziale. Il Parlamento tedesco ha ribaltato questo giudizio, considerando la persecuzione nazista degli zingari motivata razzialmente fin dal 1933. Per l’Italia la storia della persecuzione dei Rom da parte dei fasci- sti attende uno storico di vaglia: fare memoria sui vari stermini dovrebbe diventare uno strumento per combattere ogni forma di discriminazione, razzismo, violenza. Onorare la memoria storica di questi avvenimenti vuol dire battersi contro tutte le ingiustizie.
Tre interventi di taglio divulgativo aprono la seconda sezione dedicata ad un approfondimento della storia e della cultura Rom: tutti non recenti, ma molto significativi per il loro contenuto.
Risale al 2008 il primo lungo articolo di Louise Doughty riproposto nel 2021 dal settimanale “Internazionale”. L’8 aprile è la Giornata internazionale di rom, sinti e camminanti, istituita dalle Nazioni Unite per celebrare la cultu ra rom e tenere alta l’attenzione sui problemi e le discriminazioni che la popolazione subisce. Le storie raccontate dalla giornalista del Guardian ben rappresentano quella data simbolica; infatti ci parla del padre rom, della situazione dei nomadi in Inghilterra e molti altri paesi eu- ropei, richiama anche alla memoria episodi vechi e nuovi di una lunghissima storia: “Lo sterminio durante la seconda guerra mondiale è stato solo il culmine di una serie di tragiche persecuzioni compiute nei secoli contro i rom europei. Anche se l’Olocausto rom è ormai un dato di fatto, pochi sanno che per cinque secoli e mezzo migliaia di loro sono stati comprati e venduti come schiavi nell’Europa dell’est. Secondo Ian Hancock, autore del libro We are the romani people, “nel 1500 si poteva comprare un bambino rom per 32 pence. Nel 1800 gli schiavi erano venduti a peso, al prezzo di una moneta d’oro a libbra”.
Anche l’articolo di Massimo Livi Bacci è apparso nel lontano 2007 sul quotidiano “la Repubblica”, ma il taglio divulgativo è ineccepibile: “Sono i linguisti, fin dalla seconda metà del Settecento, che hanno ipotizzato l’origine degli zingari in base alle somiglianze tra la lingua parlata e le lingue del nord-est dell’India. Sono ancora i linguisti che hanno avanzato ipotesi convincenti circa le migrazioni degli zingari ed i successivi insediamenti, sulla base dei prestiti che hanno arricchito il vocabolario e la grammatica dell’idioma (romanì) e delle varianti dialettali”. L’antropologo risale molto indietro nel- la storia di quelle popolazioni che dall’India, attraverso la Persia e l’Impero Bizantino, giunsero nel 1300 in Grecia. Da qui la loro diffusione in tutta Europa.
Anche l’articolo di Guido Viale apparso sullo stesso quotidiano nel 2007, parte da molto lontano per poi arrivare velocemente al presente. “Rom vuol dire fatto di fango, come Adamo, ma anche, semplicemente, uomo; è il termine con cui la principale etnia zingara designa se stessa. Sinti, termine di più stretta derivazione indoeuropea, è il nome con cui altri zingari indicano la propria etnia. Calderas (fabbricanti di pentole), lautari (fabbricanti di liuti) e lovara (allevatori di cavalli) sono nomi che vari rami del popolo zingaro hanno assunto dal loro mestiere; come, senza connotati etnici, anche giostrai o uomini del circo. Bohèmien è diventato sinonimo di chi vive, in miseria, della propria arte o delle proprie passioni; ma inizialmente designava gli zingari a cui un editto del re di Boemia attribuiva libertà di circolare e di am- ministrare autonomamente la giustizia. Camminanti è il nome degli zingari in Sicilia. Nomadi è il termine burocratico-poliziesco con cui vengono designati in Italia; soprattutto quelli rinchiusi nei campi. Nei nomi con cui gli zingari sono stati o si sono chiamati nel tempo c’è già molto della loro storia e della loro condizione: un popolo antico come la Terra, di esuli, di emarginati, di perseguitati, pronti ad adattarsi alle attività e alle condizioni di vita più disparate”.
Seguono le recensioni di tre libri. Ben due sono dedicate al volume di Carlo Stasolla, dal titolo chiaramente provocatorio: “Razza zin- gara. Dai campi nomadi ai villaggi attrezzati: lo “scarto umano” in venticinque anni di storia”. Stasolla è il presidente della Associazione 21 luglio e il suo lavoro si apre con la prefazio- ne di mons. Gianpiero Palmieri e della postfazione di Luigi Manconi. L’autore che ha vissuto in prima persona l’esperienza dei campi scrive «un lungo e dettagliato racconto di come la città di Roma e i governi nazionali si sono occupati di quelli che in 25 anni sono stati chiamati in diversi modi, da “campi nomadi” a “villaggi attrezzati”». La recensione apparsa sul sito del “redattoresociale.it” si trasforma in un dialogo serrato con l’autore che non manca di mostrare le ferite di chi la vita del campo la subisce ancora nel corpo e nella mente.Anche la recensione apparsa sul quotidiano “il Mani- festo” mette in risalto la tesi di fondo del libro: «Il campo rom rappresenta non solo un’area di concentramento monoetnico, ma anche e so- prattutto un’ideologia. Superare definitiva- mente un insediamento non vuol dire solo svuotarlo dalle persone buttando giù i contai- ner, ma modificare il pensiero collettivo che è alla base di quel dispositivo».
Il libro di Alessandro Simoni, “Rom, antiziganismo e cultura giuridica. Prospettive di analisi”, si presenta come una sequenza di scritti che “illuminano il mai sopito antiziganismo dei sistemi giuridici occidentali – italiano, inglese, francese o americano, che sia – i quali tutti, senza distinzione, si nutrono da secoli di stereotipi negativi che ne fanno una classe di persone presunte socialmente pericolose”. Anche in questo caso si alternano richiami di carattere storico con riferimenti puntuali all’attualità.
Con il libro di Marco Revelli, “Fuori luogo. Cronache di un campo Rom”, facciamo un passo indietro nel tempo. Siamo nei mesi dell’inverno 1998-99, a diretto contatto con un gruppo di Rom provenienti dalla Romania, finiti ai margini della città di Torino, che l’autore con pochi altri cerca invano di aiutare nei rapporti con le autorità locali e nazionali. Dopo un susseguirsi di concessioni e privazioni si arriverà inesorabilmente al decreto di epulsione e alla distruzione fisica del campo. Nella recensione di Giorgio Boatti, apparsa sul quotidiano “la Stampa”, si allarga lo sguardo ad altri tipi di libri simili a quello di Revelli.
La sezione si conclude con un excursus di cinque libri per approfondire, di cui si riportano in estrema sintesi i contenuti, e cinque siti per meglio documentarsi su storia, cultura e vita legate al popolo Rom.
GITANISTAN: UN PERCORSO SUL CINEMA E LA LETTERATURA
Gitanistan è il titolo di un documentario, curato da Claudio Giagnotti, detto “Cavallo” il cantante e leader della formazione salentina Mascarimirì, che parla appunto dello stato immaginario di “Gitanistan”. Racconta delle famiglie rom salentine e ben rappresenta un particolare caleidoscopio fatto di linguaggi, suoni, immagini, cibo. Uno stato quindi che ha poco a che vedere con una specifica questione etnica, ma molto di più con un problema emotivo e culturale. Nella parte antologica riportiamo una intervista e una recensione.
Questo terzo percorso si concentra soprattutto sulla letteratura e sul cinema, ma si apre con uno dei più interessanti e sentiti omaggi alla cultura rom; la canzone di Fabrizio De Andrè: Khorakhanè (A forza di essere vento) di cui è possibile leggere il testo. E’ una canzone inse- rita nell’album Anime Salve del 1996: uno struggente pezzo incentrato sullo stile di vita e l’assoluta libertà del popolo Rom (la parola “Khorakhanè” indica appunto una tribù d’origine Rom e significa “lettori di corano”). I versi finali in “romanes” (la lingua dei rom e dei gitani) sono di Giorgio Bezzecchi. I “Khorakhané” (alla lettera: “Amanti del Corano”) sono una tribù rom musulmana di origine serbo-montenegrina.
Il primo romanzo è recensito da Antonella De Biasi e si intitola “Io non mi chiamo Miriam” di Majgull Axelsson: scrittrice, giornalista e drammaturga svedese. “Narra la storia della giovane Malika, rom tedesca che sopravvive ai campi di concentramento fingendosi ebrea, indossando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück”. Malika riesce a salvarsi diventando Miriam e, per paura di essere esclusa, emarginata, maltrattata, continua a mentire anche nella civile Svezia del dopoguerra, quando viene accolta, sfamata e integrata.
Il secondo romanzo, di Moris Farhi scrittore turco di lingua inglese, si intitola “Figli dell’arcobaleno” e parte da Birkenau: “Todor e Zara riescono a far compiere tutti i riti per il loro neonato Branko, su cui le Urme, divinità del fato, pronunciano un’enigmatica profezia. Trafugato miracolosamente dal campo di concentramento, nel 1978 il bimbo è diventato il trentenne Benedict, ingegnere e mi- litare svizzero di successo”. Il romanzo mescola generi diversi, compreso il fantastico, ma resta ben legato a quella realtà europea che con l’emergere dei nazionalismi porta a demonizzare ogni rifugiato e diverso, minacciando anche le comunità rom più antiche.
Finalmente un autore italiano nel terzo romanzo: Fernando Coratelli con “Alba senza giorno”. La trama consiste in uno strano intreccio di vite: “Stoian e Stéphka sono due ragazzi rom in viaggio per cercare fortuna nell’Europa occidentale. Martina è una giova- ne madre della periferia milanese allarmata dall’installazione di un campo nomadi nel suo quartiere; Tonino Cortale è un sicario della ‘ndrangheta che a Milano deve vendicare un assassinio. Le loro vite, perfettamente inconciliabili le une con le altre, si annodano in uno stesso fato, ignoto sino alla fine e, soprattutto, irrevocabile”.
Si parla di musica in “Django: vita e musica di una leggenda zingara”: “Nato in un carrozzone zingaro a un crocevia in Belgio, Django Reinhardt, nonostante una mutilazione alla mano sinistra sofferta da ragazzo, diventa in pochi anni uno dei più famosi jazzisti europei, guadagnandosi l’apprezzamento dei protagonisti del jazz d’oltreoceano, da Armstrong a Ellington. …Il suo stile ha rivoluzionato la tecnica della chitarra jazz per sempre. Di lui Michael Dregni fornisce il ritratto definitivo, non solo tratteggiando la sua colorita biografia, ma inserendola in un’ampia narrazione della cultura zingara e dell’ambiente musicale parigino dell’epoca; getta inoltre nuova luce sulla sua maestria tecnica e musicale, esaminando nel dettaglio le molteplici forme cui Django ha applicato il suo genio, dalla musette al jazz hot, e rievocando gli incontri che hanno segnato il suo percorso artistico, primo fra tutti quello con l’amico fraterno Stéphane Grappelli, senza dimenticare gli altri chitarristi manouche con cui amava suonare; completa quindi il libro u- na breve storia del gypsy jazz dopo la scomparsa del grande maestro”.
Mentre sono due segnalazioni di graphic novel molto particolari quelle che seguono.
Davide Reviati disegna in bianco e nero, nel suo “Sputa tre volte”, una storia che si dipana tra le vicende personali di tre adolescenti e alcuni episodi tragici del Novecento rappresentati dalla vita degli Stančič, famiglia di sinti di origine slava. Il fotografo Alain Keler invece ha girato i campi Rom in mezza Europa e con la collaborazione del disegnatore Emmanuel Guibert ha realizzato un originale graphic journalism: «“Alain e i Rom” è la cronaca di un lungo viaggio alla scoperta di un popolo migrante che vive tra noi. Un invito a guardare, attraverso le foto e i disegni, per conoscere una cultura e quindi superare paure e preconcetti».
Da molti decenni il regista francese Tony Gatlif (nato in Algeria da madre gitana) ricostruisce in maniera poetica la storia degli zingari utilizzando in tutte le sue potenzialità il linguaggio del cinema. Molto lunga la filmografia di cui riportiamo una selezione con titoli, alcuni dei quali di grande successo come “Latcho Drom” (1993) e “Gadjo Di- lo” (1997). Laura Putti sul quotidiano “la Repubblica” recensisce il film “Liberté” uscito nel 2010. Racconta la storia vera di una famiglia di zingari che nel 1943 arriva nella Borgogna occupata dai nazisti: «Il film è quindi storicamente ineccepibile, dichiara Gatlif, anche se io non sono uno storico, sono uno che lavora attraverso la poesia e sempre dalla parte dei gitani. Solamente in Francia c’erano quaranta campi, e ventimila persone vi sono state deportate. Dal Belgio invece partivano i treni verso la Polonia, verso Auschwitz». L’argomento dello sterminio viene anche affrontato nel documentario di Maurizio Orlandi: “Romani Rat – la notte dei Rom”. «Il documentario racconta il viaggio di un musicista Rom del Kosovo che ricerca, attraverso villaggi, paesi e città degli zingari d’Europa, la storia del suo po- polo e, in particolare, quello che accadde la notte del 1 agosto del 1944 ad Auschwitz- Birkenau, quando i nazisti procedettero alla liquidazione dello Zigeunerlager e all’eliminazione di 5000 Rom e Sinti deportati nel campo. E’ un viaggio, quello che Romani Rat racconta, sospeso tra passato e presente, un viaggio nella memoria che vuole ricordare le tragedie di un popolo troppo spesso dimenticate».
Ben due le recensioni riportate del film di Jonas Carpignano “A Ciambra”; il regista trentatreenne è nato a New York da padre ita- liano e madre afro-americana, ma lavora in Italia e precisamente in Calabria. Premiato a Cannes, è una classica storia di formazione, racconta infatti l’abbandono dell’infanzia di Pio, che deve affrontare consuetudini e pregiudizi del suo ambiente, quello di una comunità rom nei pressi di Gioia Tauro, appunto “a ciambra”. Tre ambienti e tre diverse forme di marginalità che si confrontano: i rom, gli im- migrati africani, la ‘ndrangheta. «A Cimbra è un buon film ed è un film importante per molti motivi: perché racconta quasi dal dentro il mondo dei rom, nelle sue contraddizioni e nella sua realtà con lo sguardo della “antropologia partecipata”, e serve a far capire questo mondo a un pubblico italiano molto portato all’intolleranza e al razzismo; perché lo fa da poeta, peraltro memore di una nostra tradizione neorealista (il cavallo di Sciuscià) da cui sembra riprendere qualche suggestione bensì calandola in una realtà diversamente marginale, da tempo di pace e non di guerra, e che evochi un’autonomia ormai impossibile, che è quella tristemente affermata dal patriarca di una tribù ormai stanziale, che prima di morire può ancora dire tra sé ma anche al nipote e protagonista che “una volta eravamo sempre per strada, una volta eravamo liberi”; perché nella vicenda di Pio che per diventare adulto secondo i canoni della comunità dei maschi adulti e dominanti, è costretto a tradire il suo amico africano, il regista mette in discussione i canoni, oggi, della gran maggioranza delle comunità adulte, che impongono quasi sempre ai nuovi nati e ai nuovi arrivati condizionamenti di un conformismo variamente prepotente e assai raramente civile e morale».
La sezione si conclude con l’indicazione di cinque film che parlano di Rom, Sinti e camminanti: una selezione ferrea fra i tantissimi titoli che raccontano le storie di queste popolazioni.
“NON VI VOGLIAMO” CRONACHE DI ORDINARIA DISCRIMINAZIONE
La quarta e ultima parte del nostro percorso consiste in una serie di articoli, fra reportage e commenti su fatti di cronaca, che riguardano grosso modo gli ultimi cinque anni. Prevalgono i toni di denuncia sul- le condizioni di vita dei Rom, ma non mancano alcuni riferimenti che lasciano qualche piccolo spiraglio di ottimismo.
L’articolo di Erica Antonelli (Espresso, novembre 2021) mette ben in evidenza come dal 2016 in 10 mila hanno lasciato gli insediamenti ghetto “monoetnici”: molti vivono in alloggi popolari ottenuti con bandi normali. Molto bella la storia di Ana che a Roma vive mantenendosi facendo la parrucchiera e che ha ottenuto una casa popolare, dopo essere passata attraverso una storia di violenza familiare. La giornalista non manca di richiamare quelle politiche speciali attuate da alcune regioni (ad iniziare da quella del Veneto che risale al 1984: “Interventi a tutela della cultura rom”), che si sono rivelate politiche divisive soprattutto per il nodo abitazioni: “I provvedimenti su base etnica hanno legittimato la distinzione tra un abitare “convenzionale” e uno “nomade”, ritenuto proprio dei rom in fuga dall’ex Jugoslavia”.
Anche l’articolo di Samuele Cafasso Milano (Domani, luglio 2021) ci presenta storie di integrazione con ottimi risultati di alcuni nuovi attivisti di successo: sono sociologhe, stilisti, operatori del sociale, studenti, registe. Noi dice una di loro «non siamo zingari, siamo un popolo con una storia che molti di noi ancora non conoscono. Essere consapevoli delle proprie radici è il primo passo».
Con l’articolo di Giansandro Merli (il Manifesto, settembre 2021) si aprono una serie di tristi vicende. In questo caso si parla dello sgombero del campo di Roma denominato la Barbuta: “quello situato alle porte di Ciampino è un insediamento nato nel 1992 per ospitare rom dell’ex Jugoslavia e sinti italiani provenienti da alcuni campi della capitale (via Scintu, via Vignali, via Rapolla, via Pelizzi, via Procaccini). Nel 2012 è diventato un «villaggio attrezzato», cioè una «baraccopoli istituzionale», per 550 persone”. Il pezzo di Stefania Albanese (Domani, maggio 2021) racconta la storia triste di Marianna e affronta il problema del ruolo giocato da assistenti sociali e tribunali dei minori che emanano decreti di sospensione della patria potestà. Il lungo articolo della giornalista affronta una parte di quella corposa letteratura che denuncia il tema dei fi- gli dei rom allontanati dai genitori e messi in case famiglia, dati in affidamento o adottati. Molto bella anche la testimonianza di Dijana Pavlovic (Espresso, aprile 2020) che ci parla della vita dei campi diventata ancor più difficile con la presenza del coronavirus, ma che è anche una rivendicazione orgogliosa di come “nella nostra cultura la solidarietà è for- te, maturata attraverso secoli di ostilità e persecuzioni. Una solidarietà che vale per chiunque abbia bisogno”.
Con l’articolo di Benedetta Tobagi (la Repubblica, aprile 2019) l’accento cade maggiormente sui commenti, ma la denuncia di pregiudizi e veri e propri atti di razzismo è altrettanto forte: “da Nord al Sud, anche se i responsabili non vengono identificati, c’è una gamma di effrazioni attribuite a loro quasi in automatico”. Anche i due articoli della sociologa Chiara Saraceno (entrambi sulla Repubblica: giugno 2018 e ottobre 2014) sono una chiara denuncia verso l’Italia che mostra il più alto tasso di antigitanismo tra i paesi industrializzati. La polemica riguarda l’ex ministro dell’Interno Salvini che “dopo la battaglia dei porti anti-immigrati ha deciso di agitare anche la bandiera della caccia ai rom, in una ennesima versione della “emergenza rom”, come se si trattasse di popolazioni com- parse improvvisamente da non si sa dove, stranieri non solo o tanto perché di altri paesi, ma perché estranei “al popolo” italiano”. Come del resto lo stereotipo dello zingaro ladro è talmente forte “che mentre si accetta senza battere ciglio che vivano in condizioni spesso spaventose (tanto sono “come animali”, “sub-umani”), purché i loro insediamenti siano a debita distanza da quelli dei “civilizzati”, si considera una pretesa fuori luogo che chiedano invece di poter vivere in condizioni civili”.
Se le condizioni di rom, sinti e camminanti sono molto difficili in Italia, nel resto dell’Europa le cose vanno anche peggio: gli ultimi quattro articoli riguardano esperienze in diversi paesi europei. Anche in questo caso però si inizia con una nota di ottimismo. Višnja Gotal (Internazionale, ottobre 2021) ci racconta una bella storia della maestra croata Olja Dijanošić, che si è inventata una attività didattica per coinvolgere di più i bambini rom e poco per volta ha creato il primo dizionario illustrato croato-romani. «Il dizionario raggruppa le parole secondo la loro funzione. E’ diviso in 24 capitoli, per esempio “Questo sono io”, “Questa è la mia famiglia”, “Io vivo qui”, “Scuola”, “Numeri”, che danno agli alunni 250 parole sufficienti per la comprensione quotidiana». Negli ambienti educativi, quando la volontà è quella di integrare, sono possibili autentici miracoli: questa storia lo dimostra chiaramente.
Sabato Angeri (il Manifesto, settembre 2021) denuncia senza mezzi termini la situazione che si è creata in Ungheria il cui regime illiberale è alla ricerca di un ennesimo nemico interno. Nel paese c’è la comunità rom più antica e popolosa d’Europa, che vive ghettizzata e segregata, a volte impiegata in lavori sociali con compenso minimo del tutto insufficiente per sopravvivere.
Floriana Buffon (Espresso, agosto 2021) ci racconta dei rom in Bulgaria senza nessun tipo di assistenza medica in piena pandemia. In compenso le autorità hanno deciso di sanificare i loro ghetti con gli elicotteri, sparando letteralmente sulle poverissime “abitazioni” quintali di disinfettante. Siamo nell’Unione eu ropea, ma qui non solo il diritto alla salute non esiste, ma si continua con una propaganda che definisce i rom «umanoidi selvaggi», oppure «zingari non socializzati», con toni non molto diversi dai regimi degli anni Trenta.
Ultima denuncia è quella di Yuri Colombo (il Manifesto, Ottobre 2019) che riguarda l’Ucraina. Sono stati almeno dieci i pogrom contro accampamenti e villaggi rom in questo travagliato paese negli ultimi tempi: “gli attacchi sono stati condotti principalmente dall’organizzazione neonazista S-14”.
In questi nostri quattro percorsi abbiamo cercato di sottolineare la testimonianza che ancora oggi l’esperienza dei Rom può rappresentare ai nostri occhi: si può essere popolo dappertutto e comunque, senza uno stato, una nazione, un esercito, una burocrazia. Una alterità che vive negli interstizi dei confini, ai margini delle periferie, ma senza ombra di nazionalismo, basando il proprio orgoglio su una profonda identità, una chia- ra riconoscibilità, sui canti, sul cibo, spesso su una sincera fede, su una cultura più orale che scritta.
Risale al mese scorso l’ultimo appello-denuncia sottoscritto da giornalisti, scrittori, docenti universitari ed esponenti del mondo delle professioni, sulla discriminazione delle persone Rom, Sinti e Camminanti, in particolare nella città di Roma. «… “Apartheid” è u- na parola terribile: indica un sistema di esclusione e dominio codificato in leggi. Ma esiste un apartheid non scritto, perciò ancora più terribile. Perché si nega, non si vede. La Costituzione, le leggi, vietano il razzismo, perciò ci indigniamo giustamente per i rigurgiti di antisemitismo, o quando il diritto di asilo viene ignorato. Ma chi si indigna, nei media, tra gli intellettuali, nella politica, se si pratica un ferreo apartheid nei confronti di Rom, Sinti e Camminanti? E quante calunnie, quanti pregiudizi, azioni discriminatorie, sottrazioni di bambini alle loro famiglie saranno necessari perché ci si renda conto che nel nostro Paese c’è una minoranza sistematicamente discriminata e perseguitata? Che per andare a scuola i bambini faticano il doppio degli altri? Ma chi li vede come scolari? Chi li ascolta? E chi sa quanti bambini rom e sinti che pure sono inseriti a scuola e vogliono frequentare si trovano senza libri e materiale scolastico perché i geni- tori spesso non hanno neanche i soldi per garantire il mangiare? …». Tra i firmatari Edith Bruck, Luigi Ciotti, Alex Zanotelli, Marco Revelli, Moni Ovadia e moltissimi altri. Dai gitanos di Charles Baudelaire ad oggi non molto è cambiato.
Concludiamo con le parole di Chiara Saraceno che con sincerità e folgorante sinteticità ben esprime il nostro punto di vista: «Non mi nascondo che ci possano essere problemi di integrazione ed anche di comportamenti impropri, come i matrimoni precoci, l’evasione scolastica, l’accattonaggio o i furti. Ma essi non sono condivisi da tutta la popolazione rom. Allo stesso tempo non possono che essere rafforzati da atteggiamenti, e politiche pubbliche, che continuano a trattare la popolazione rom come un corpo estraneo a quello non solo del “popolo” e dei cittadini, ma della stessa umanità. Se si continua a negare loro sia condizioni di vita decenti, sia la stessa capacità di apprezzarle». La nostra opinione come associazione è chiara: anziché istigare all’astio, bisogna voler perseguire la collaborazione e impegnarsi su quei problemi – sanità, istruzione, casa, lavoro – in cui tutti ci si possa riconoscere a vantaggio di tutti, ma soprattutto dei più fragili.
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