Commemorazione a Malga Silvagno, 6 ottobre 2013

Malga Silvagno 2013

Orazione commemorativa tenuta dalla prof.ssa Carla Poncina, Direttrice dell’ISTREVI Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Vicenza “Ettore Gallo”

Le azioni umane non vanno irrise, né compiante, né detestate, ma comprese.
Baruch Spinoza

Saluto tutti voi, semplici cittadini, rappresentanti delle associazioni: ANPI, AVL, ISTREVI, e con particolare soddisfazione saluto i Sindaci di Conco, Valstagna, Nove, Marostica, perché la vostra presenza a Malga Silvagno le vostre fasce tricolori, sono espressione di una nuova sensibilità delle Istituzioni pubbliche nei confronti di un passato troppo spesso trascurato, se non tradito e calunniato. Mi riferisco naturalmente ai venti mesi della lotta di Liberazione, sui quali si fonda la nostra democrazia, la nostra Repubblica.

È importante essere saliti fin quassù per il secondo anno, dopo l’inaugurazione della lapide in ricordo dei quattro garibaldini uccisi: Giuseppe Crestani (Bepi Stizza), Ferruccio Roiatti (Spartaco), Tommaso Pontarollo (Coarossa-Masetti), e Zorzi-Pirro-Maschio, veneziano non identificato.

Era il 14 ottobre 2012, e per iniziativa dell’ANPI si poneva fine a un lungo, ingiusto periodo di oblio. L’orazione ufficiale tenuta da Mario Faggion in quell’occasione ha ridato voce e volto a quei martiri, senza timore di alzare il velo su un momento doloroso dell’epopea resistenziale, che sollecita insieme la nostra pietà e la nostra riflessione.

Per molti versi noi siamo ciò che scegliamo di ricordare. Certo sappiamo che c’è diversità tra ricordo individuale, memoria e storia. Nel rito del ricordo, che anche noi oggi stiamo celebrando, si cerca di dare senso a quanto accaduto, consapevoli che il nostro sforzo non potrà mai esaurire completamente il bisogno di verità cui continuiamo pervicacemente a tendere.

C’è un diritto alla memoria che vale per tutti, anche per le persone più semplici. Se queste poi hanno subito un grave torto, ricordarle è un po’ come render loro giustizia, ed è ciò che ha fatto l’ANPI ponendo a Malga Silvagno una lapide in ricordo dei partigiani comunisti uccisi.

Onoriamo dei morti, ma lo facciamo a vantaggio dei vivi. Anche una vicenda complessa e dolorosa può affinare il nostro sguardo, la nostra sensibilità, ad esempio non usando la vicenda dolorosa di Malga Silvagno per contrapporla tout court a quanto accadde a Porzus, senza inserire prima entrambi gli episodi entro la grande storia dello scontro tra nazifascismo e libertà e in quel contesto ricordare che i partigiani, rossi o bianchi, combattevano dalla stessa parte.

Scrive Primo Levi: «Il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi, cinici» (Il Sistema Periodico, in Opere, vol. II, p. 850).

Egli parla per sé e per i propri amici, quasi tutti giovani borghesi, cresciuti in città, laureati.

Che dire di coloro che si macchiarono del delitto di Malga Silvagno, la cui breve vita si era svolta nel giro di pochi chilometri dal borgo natio, all’ombra del campanile e del fascio? I garibaldini uccisi, vecchi combattenti tempratisi nel confino, nelle galere, nella lunga lotta contro la dittatura in nome del comunismo, dovevano sembrare del tutto estranei ai loro tradizionalissimi valori.

E tuttavia pensiamo valga anche per loro quanto lo scrittore scrive poco oltre: «Dopo l’otto settembre, nel giro di poche settimane, ognuno di noi maturò più che nei vent’anni precedenti» (ivi, p. 851).

Chi ha combattuto il fascismo lo ha fatto in ogni caso, anche quando ha sbagliato, in nome di giusti valori di libertà, di umanità. La lotta partigiana fu nella sua essenza ribellione morale contro la retorica menzognera che aveva appestato l’Italia nel ventennio. Per questo noi, nel rispetto di questi morti, non abbiamo paura della verità, al contrario: siamo certi che solo riconoscendola, non ignorandola, si può respirare una buona aria, come quella che si respira quassù.

Sentiamo ancora il bisogno di affidarci alle parole di Primo Levi. Pur facendo riferimento ad una vicenda diversa, il periodo, l’ambiente, gli attori sono assai simili: si tratta pur sempre della “necessità” di uccidere dei compagni. È il dicembre del 1943, siamo ai primi passi della lotta resistenziale; il teatro è sempre la montagna, dove si sono rifugiati dei giovani decisi a combattere il fascismo, ma inesperti di guerriglia.

Nelle montagne del Piemonte come in quelle venete si decide di dare la morte a chi era stato accolto come amico, decisione lacerante. Così ne scrive Levi:

«Avevamo freddo e fame, eravamo i partigiani […] più sprovveduti (del Piemonte) […]

In ognuna delle nostre menti pesava un segreto brutto: eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci tra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente». (ivi, pp.852-853)

Non sarà stato molto diverso il sentire di coloro che avevano barbaramente ucciso i compagni garibaldini, me lo auguro quantomeno. Certo di lì a poco essi stessi verranno catturati e uccisi dai fascisti, conservando nell’anima il sogno di un’Italia libera.

Dopo l’8 settembre – ricordiamolo sempre noi più fortunati – si vivevano tempi brutti, confusi, spesso tragici. Torniamo quindi alla vicenda la cui ricostruzione ci consente finalmente di rendere il dovuto onore a delle vittime troppo a lungo dimenticate.

L’oblio della memoria è stato interrotto nell’86 dal saggio di Pierantonio Gios: Controversie sulla Resistenza ad Asiago ed in Altopiano.

Sono poi venuti i saggi di Mario Faggion e Gianni Ghirardini e infine l’ampio e approfondito lavoro di Ugo De Grandis, che in qualche modo ha posto la parola fine alla vicenda per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti e l’individuazione dei colpevoli, senza tacitare del tutto le polemiche che fanno godere solo i nemici della Resistenza.

A noi resta il dovere di cercare di capire il senso di un’azione di per sé insensata.

Non è necessario ripercorrere la storia del Gruppo di Fontanelle di Conco, che tutti voi certamente conoscete, dal suo sorgere come gruppo partigiano con le prime azioni di sabotaggio e di lotta armata, fino al suo epilogo a Malga Montagna Nuova di Dietro con il rastrellamento dei giorni 10 e 11 gennaio 1944.

Vogliamo piuttosto affidare alla memoria i volti e le storie individuali. Chi erano gli uccisi? E chi erano gli assassini?

Dei primi colpiscono le vite tribolate in nome di grandi ideali. Tutti avevano patito emigrazione, esilio, galera, confino. Nulla li aveva piegati. Dopo l’otto settembre di corsa in montagna, a combattere. Per questo la loro fine ci stringe il cuore, ci sembra particolarmente crudele, e spinge a chiedersi: è scomparsa questa genia di italiani?

Erano naturalmente più vecchi degli altri, quelli che hanno ucciso: giovani “ignoranti” in senso proprio, perché cresciuti isolati nelle loro contrade, sotto e dentro il fascismo, reverenti col potere, in particolare quello religioso. Ma non si può disgiungere la condanna dalla pietà, perché di lì a poco moriranno anche loro per mano fascista.

Utilizzo le parole di Mario Faggion, sintetizzandole un poco, per tratteggiare brevemente le figure dei partigiani garibaldini:

Di “Zorzi-Pirro-Maschio” è difficile dire qualcosa di certo; deve avere condiviso con gli altri tre l’esperienza della lotta antifascista nella clandestinità e con alcuni di essi il carcere e il confino, […] doveva avere una certa preparazione politica e un’età come i suoi compagni, dai 35 ai 40 anni;

Giuseppe Crestani, “Bepi-Stizzaera del 1907. Nato a Duisburg in Germania […] dal 1933 sappiamo che era sotto sorveglianza di servizi segreti fascisti. Dopo aver lavorato come cameriere a Torino e a Salsomaggiore, espatriò in Francia e poi in Spagna, dove si arruolò nelle Brigate Internazionali, in difesa della Repubblica Spagnola. Rientrato in Francia in seguito alla sconfitta, aveva provato la dura esperienza dei campi di internamento francesi. Consegnato agli agenti di Pubblica Sicurezza italiani alla fine di settembre 1941, era stato prima trattenuto in carcere a Vicenza e poi assegnato al confino di Ventotene, dove aveva incontrato Pontarollo; il 29 agosto 1943, liberato, era tornato a Tortima.

Di lì a poco – come i suoi compagni sarà di nuovo sulle montagne a combattere il fascismo. Un comunista e un uomo temprato alla lotta da mille difficoltà (ndr).

Tomaso Pontarollo, “Coarossa-Masettidi Valstagna, classe 1905. Muratore. Dopo il servizio militare, minatore in Piemonte, espatriato in Francia e arruolato nella Legione Straniera in Marocco e in Algeria […] lì entra in contatto con alcuni antifascisti attivi e diventa comunista; rientrato in Italia è arrestato nel novembre 1936 per attività comunista; assegnato al confino a Ventotene per 5 anni, poi trattenuto ancora e assegnato al campo di concentramento di Pisticci (Matera); il 1° settembre 1943 è rilasciato e ritorna a Valstagna.

Ferruccio Roiatti, “Spartaco, di Cussignacco (Udine), classe 1908, bracciante. Matura una coscienza politica antifascista durante il servizio militare; rientrato a casa, entra a far parte di un’organizzazione comunista e si dedica alla diffusione di stampa clandestina e alla raccolta di aiuti per il “Soccorso Rosso”.

Viene arrestato con altri 15, tra cui il fratello Pietro “Gracco”, futuro comandante partigiano della Resistenza in Friuli, caduto il 14.12.1944. Sottoposto a processo è condannato a 8 anni di reclusione nell’ottobre 1934. Alla fine di febbraio 1937 rimesso in libertà per buona condotta e per la nascita del principe Vittorio Emanuele di Savoia. In luglio si sottrae alla libertà vigilata per andare volontario in Spagna. Catturato al confine con la Svizzera è di nuovo incarcerato. […] In campo di concentramento e poi al confino nelle Isole Tremiti per condotta sovversiva. Il 1° settembre 1943 ritorna a Udine. Dopo l’otto settembre sale in montagna con il fratello Pietro. Chiamato da Amerigo Clocchiati nel Veneto, approda nel Gruppo di Fontanelle di Conco, come Crestani, Pontarollo e “Zorzi”.

Erano comunisti, parola che ormai si lancia addosso ai nemici come fosse il più infamante degli insulti. Ma chi sono e sono stati i comunisti italiani? Da non comunista dico che chi in Italia ci ha creduto e ci crede, dovrebbe anche in nome di Giuseppe, Tommaso, Ferruccio, Zorzi, difendere la storia di quest’idea e degli uomini che l’hanno perseguita nel nostro Paese. Persino Meneghello, che certo comunista non era, ne parla con ammirazione, quasi con invidia. Scrive infatti in un passo dei “Piccoli maestri”:

Noi eravamo del partito d’Azione, e ammiravamo profondamente i comunisti. […] sempre primi in tutto, sempre sotto, senza calcoli, pagando sempre di persona. È inutile dire oggi che i calcoli ci saranno stati; chi dice così non ha capito niente dei comunisti di allora; noi invece li abbiamo visti coi nostri occhi, e sappiamo cosa valevano.

Ricorda poi Meneghello, per contrasto, quei compagni di scuola che continuavano ad occuparsi, «forse presso una zia in campagna» di esami universitari, «per avvantaggiarsi nella vita e nella carriera»…

«Grandi villeggianti della guerra civile» li chiama lo scrittore vicentino, ricordando uno di loro che «all’otto settembre entrò in un armadio in casa di amici a Venezia e trascorse il resto della guerra prevalentemente così» (I piccoli maestri).

È paradossale che siano stati “sdoganati” i fascisti ormai da vent’anni, mentre “comunista” è diventato un insulto infamante. Ecco un chiaro esempio di manipolazione perfettamente riuscita, visto che in Italia non il comunismo ha esercitato un potere totalitario per decenni bensì il fascismo, che abbiamo addirittura inventato, al punto che in tutto il mondo i totalitarismi di destra sono chiamati con questo nome italiano.

Sarebbe ora di ricostruirla davvero la nostra storia dopo decenni di menzogne e omissioni, mettendo a confronto gli “Ideali” dei fascisti con quelli dei comunisti e dei cristiani. Si scoprirebbe che questi ultimi sono per molti aspetti simili tra di loro (le parole di papa Francesco suggeriscono alcune riflessioni in proposito) e tutt’affatto differenti dai primi. E le ipocrite dichiarazioni dei politici di destra a proposito dell’immane tragedia dei profughi che si è appena consumata nel mare di Lampedusa lo dimostra.

Purtroppo i fanatici, i manipolatori degli ignoranti, hanno sempre avuto troppo ascolto in questo paese.

Torniamo ai partigiani uccisi: uomini che avevano combattuto il fascismo non solo in Italia, subendo il carcere e il confino. Morti infine nel momento in cui la speranza della libertà sembrava, ed era, relativamente vicina. Morti senza aver potuto toccare la terra promessa, a un passo dalla fine di un incubo. Le loro vite ci appaiono esemplari per la voglia di riscatto, la dedizione agli ideali, le infinite sofferenze patite nella speranza di raggiungere quel mondo di valori eterni: giustizia, libertà, pace, che sembrava ormai a portata di mano.

Per questo è così dolorosa la loro vicenda umana, e così degna del nostro ammirato ricordo.

Queste le vittime.

E gli assassini? Bravi ragazzi timorati di Dio secondo la descrizione del loro parroco don Luigi Cappellari. Che cosa dunque li ha resi degli assassini? Tralasciamo le figure di tristi mestatori che pure non mancarono, e la situazione eccezionale in cui si trovarono a vivere e ad agire. Certo questo sacerdote che li spingeva all’attendismo mettendoli in guardia contro i quattro compagni “atei e sovversivi” che a loro si erano uniti e cui negò, dopo lo strazio della morte, persino la sepoltura in terra consacrata, non brillava per virtù cristiane né coltivò in loro spirito di fratellanza o di umana pietas, spingendoli invece alla rancorosa contrapposizione tra cattolici e comunisti, attendisti e rivoluzionari.

Ma come sempre in circostanze così tragiche molteplici furono le radici del frutto velenoso che condusse alla morte i quattro partigiani garibaldini. Di alcune si è già detto, altre si possono individuare: la controversia sulle coperte del commerciante che si vociferava fossero nascoste in canonica a Rubbio e che gli uccisi avrebbero voluto prelevare per ripararsi dal freddo, contro la volontà dei cattolici che consideravano sacra la canonica -pur se girava voce vi si nascondesse merce da borsa nera- tanto quanto la proprietà privata. Per non parlare della disputa sulla messa di Natale cui – a dire di qualcuno – i “comunisti” non volevano partecipassero i giovani.

Questo insieme di motivazioni, vere o false, ci interessa ora relativamente.

Siamo qui per onorare delle vittime, e pur riconoscendo le loro indubbie, gravissime responsabilità anche gli uccisori possono essere definiti vittime. Questi i loro nomi, secondo la ricostruzione fatta da De Grandis: Decimo Vaccari, Giovanni Rossi, Enzo Possamai, Luigi Nodari. Non sta a noi, qui, dire di più. Una volta ricostruita doverosamente dagli storici la verità dei fatti non resta che tentare qualche riflessione.

Il tema della verità è per noi tutti essenziale, ma vorremmo potere andare oltre la mera fattualità.

A differenza del fascismo che si è nutrito di propaganda, retorica e non raramente falsità, la Resistenza è per sua natura legata al bisogno di verità, di pulizia morale, senza le quali non può esserci né giustizia né libertà. Ecco perché le eventuali opacità, le vicende anche più scomode, sono venute alla luce assai presto in conformità al carattere della lotta resistenziale. Ricordiamo tutti la battuta di Meneghello nei Piccoli maestri: «retorica, cinque giorni a pane e acqua». Con lo stesso spirito lo scrittore, già all’inizio del libro, dice di sé e dei propri compagni: «non eravamo mica buoni a fare la guerra». E così, senza abbellimenti, racconta in un passo del suo romanzo il duro episodio dei giovani partigiani giustiziati dai compagni per aver commesso un furto, in base alle leggi che loro stessi si erano dati.

Anche Primo Levi –come già ricordato- ne Il sistema periodico riporta una vicenda simile, senza nascondere il grave turbamento che ne derivò. Gli scrittori che hanno raccontato la Resistenza dopo averla vissuta rifuggono dalla retorica e affrontano anche i temi più scabrosi, quelli che hanno a che fare con la violenza, non c’è dubbio.

Ricordo che Claudio Pavone, che ha scritto il più importante libro sulla Resistenza degli ultimi vent’anni: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, dedica centinaia di pagine alla violenza partigiana, in ogni caso distinguendola dalla violenza fascista.

So che l’espressione guerra civile, mai prima accettata a sinistra e invece utilizzata con intenti manipolatori a destra, è ancora oggi invisa a molti.

Ma se la usiamo – come dice Pavone – per non occultare “la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani” senza dimenticare che la Resistenza è stata anche una guerra patriottica e una guerra di classe, non facciamo che rispettare la verità, senza dimenticare come sia impossibile:

« anche solo guardando le foto che ritraggono i partigiani con le loro divise sbrindellate, con gli scarponi da montagna, magari in atto di imbracciare uno ‘sten’, sguardo fermo e penetrante rivolto all’obiettivo, fazzoletti rossi attorno al collo ben in evidenza[…] non provare un sentimento di commozione e di gratitudine per quegli uomini, quelle donne e quei ragazzi che, con la scelta coraggiosa di lottare contro il nazifascismo e per un nuova democrazia – scelta assunta quando nessuno sapeva come sarebbe andata a finire -, posero le indispensabili premesse della rifondazione etica, politica e civile del nostro Paese, restituendo onore e dignità alla cittadinanza italiana. Né bisogna dimenticare che, se l’Italia non fu sottoposta ad un processo per i crimini del fascismo, ciò avvenne perché, diversamente dalla Germania, il nostro Paese aveva dato vita ad una resistenza armata e popolare contro le truppe di occupazione tedesche e contro i loro alleati saloini. D’altra parte, se la volontà di rompere radicalmente con il passato fu l’anima della Resistenza europea, è giusto osservare che in Italia questa volontà trovò due grandi ostacoli: oltre che contro i tedeschi, qui si trattava di battersi non solo contro il governo collaborazionista di Salò ma anche contro le conseguenze culturali e antropologiche di vent’anni di dittatura. Questo spiega perché un tratto che accomuna coloro che parteciparono alla Resistenza è il rifiuto della retorica del fascismo: rifiuto che nasce non solo dalla necessità di abolire una distanza, divenuta insopportabile, tra le parole e le cose, ma anche dalla consapevolezza di quanto profonda fosse stata l’impronta che il fascismo aveva impresso, con il suo greve carico di servilismo e di ipocrisia, nell’animo di tutti.» (Eros Barone)

Il lungo rifiuto di riconoscere alla Resistenza il carattere di “guerra civile” potrebbe spiegare perché sia da parte cattolica che comunista sia prevalsa la volontà di non approfondire la vicenda di Malga Silvagno: troppo doloroso in sé e rischioso per le inevitabili strumentalizzazioni dover ammettere una faida tra partigiani per motivi ideologici. Inoltre dopo venti mesi di lotta terribile c’era il bisogno di guardare avanti e non indietro, salvaguardando la speranza e non il rancore per ricostruire il Paese. Così è stato. Il prezzo del benessere è stato pagato anche con questa moneta.

Oggi, a chi chiede di non onorare i partigiani uccisi a Marostica perché tra essi c’erano gli assassini di Malga Silvagno, ricordo che sono comunque morti a vent’anni, in difesa della libertà e invoco l’umana pietas. Non onorandoli umilieremmo la nostra umanità insieme alla loro.

I venti mesi della lotta di Liberazione sono tra le non moltissime pagine della nostra storia unitaria di cui andare giustamente orgogliosi. Agli uomini e alle donne che hanno lottato e sono morti per dare a noi Libertà e Democrazia dobbiamo perenne riconoscenza. A loro dobbiamo guardare, da loro trarre ispirazione ora che il nostro Paese sembra aver perso di vista gli ideali per cui hanno combattuto i partigiani, tutti i partigiani.

Penso alla recente tragedia dei morti di Lampedusa: la giusta, doverosa emozione di tanta parte del paese, ma anche le voci ignobili che si sono levate e l’ipocrisia di chi ha voluto leggi crudeli e contemporaneamente, dai più alti scranni del potere, recita ipocriti compianti, devono farci riflettere.

Anche in memoria di quei morti ha senso il nostro ritrovarci qui a settant’anni di distanza.

La morte di Giuseppe Crestani, Tomaso Pontarollo, Ferruccio Roiatti e del veneziano Zorzi, e quella delle migliaia di altri giovani che hanno combattuto per ideali alti che l’Italia ha troppo velocemente dimenticato pretendono da noi un impegno civile sempre più convinto e attento, non una semplice cerimonia di commemorazione.

Non dimentichiamo mai che senza le decine di migliaia di morti partigiani non ci sarebbe stata la Repubblica, il voto alle donne, una delle COSTITUZIONI più avanzate sul piano della democrazia, quella democrazia che ancora una volta, anche in nome di Bepi-Stizza, di Spartaco, di Coarossa Masetti, di Zorzi (questi i loro nomi di battaglia) siamo tenuti a difendere dall’ennesimo tentativo di stravolgimento.

Infine, per ricordare chi siamo, da dove veniamo, le parole di Primo Levi:

Partigia 

Dove siete, partigia di tutte le valli, Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?

Molti dormono in tombe decorose, quelli che restano hanno i capelli bianchi e raccontano ai figli dei figli come, al tempo remoto delle certezze, hanno rotto l’assedio dei tedeschi là dove adesso sale la seggiovia.

Alcuni comprano e vendono terreni, altri rosicchiano la pensione dell’Inps o si raggrinzano negli enti locali. In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.

Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna, lenti, ansanti, con le ginocchia legate, con molti inverni nel filo della schiena. Il pendio del sentiero ci sarà duro, ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.

Ci guarderemo senza riconoscerci, diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi. Come allora, staremo di sentinella perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.

Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno, spaccato ognuno dalla sua propria frontiera, la mano destra nemica della sinistra. In piedi, vecchi, nemici di voi stessi: La nostra guerra non è mai finita.