Nel grande patrimonio del canto popolare e in quello più circoscritto dei canti della Resistenza italiana generati dalla scelta antifascista di chi si oppose al collaborazionismo della RSI e agli occupanti nazisti o della Wehrmacht, confluirono in gran numero, fra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, suoni ed intenti d’origine nonché di natura assai diversa.
Contrafacta e rifacimenti testuali di melodie spesso alla moda e conosciute sovente per tramiti radiofonici o cinematografici, imprestiti e riprese provenienti, più di frequente, dall’ampio canone del Primo conflitto mondiale, echi infine di antiche arie da cantastorie e persino del canto religioso di Chiesa si alternarono così tra le file di quanti intrapresero la lotta armata contro il fascismo, ma anche tra le popolazioni civili di molti paesi e città, per riferirsi, cantando, a una tragedia e a una terribile contesa in atto. Accanto alla prevalente eredità, fra i giovani partigiani, dei canti corali (compresi quelli “di regime” sovente appresi a suo tempo nelle organizzazioni di base del PNF ma ora girati in satira e muniti di parole nuove a cominciare da quelle escogitate per tempo onde insultare in dialetto l’incipit di Giovinezza: “Salve, o popolo de ròie / Salve, o patria de putàne / Mussolini el n’ha ridoto / A on marélo de luàme”) godettero così d’una certa fortuna, in versione riveduta e corretta, anche ritornelli e varie canzoni destinate più tardi a trovare riscontri letterari di riguardo.
Alcune, più diffuse in Piemonte e in Emilia, sul tipo della celebre Fischia il vento, di cui trasmise una immagine potente Beppe Fenoglio nel suo Partigiano Johnny, erano state voltate in italiano dagli originali appresi talvolta in Russia dai nostri soldati come appunto la Katyusha scritta nel 1938 dal poeta comunista Mikhail Isakovsky e tradotta proprio da un reduce dell’Armir e valoroso comandante partigiano, Felice Cascione, morto in combattimento e medaglia d’oro della Resistenza in Liguria.
Altre se possibile presto famose e oggi anzi di notorietà planetaria, come Bella ciao, furono cantate invece più di rado e, stando alle ricerche di Cesare Bermani, in ben pochi luoghi, ma non in Veneto dove pure non erano mancati numerosi commenti in musica agli avvenimenti politici e militari dei seicento giorni di Salò.
Nella fattispecie della provincia di Vicenza , dove l’opposizione al fascismo si era rivelata più aspra ed intensa che altrove, coinvolgendo in larghissima misura i civili, il fenomeno fu caratterizzato dalla circolazione di motivi ispirati a specifiche vicende locali: esecuzioni sommarie, rappresaglie e contraccolpi dei rastrellamenti nazifascisti trovarono così, assieme ad altri fatti sanguinosi, la via di un racconto popolare di cui le indagini sul campo e le rivisitazioni sonore del Canzoniere vicentino hanno consentito il prezioso “salvataggio”.
Nel CD che ce ne fornisce una preziosa antologizzazione figurano quindi alcuni esempi significativi di rappresentazioni narrative della Resistenza affidate dalla gente comune al canto, non ultime quelle deliberatamente appoggiate, come più spesso si sentirà, alle risorse della tradizione canora alpina specie del ‘15-’18, ma altresì al recupero del canto “sovversivo” e socialista già in auge a fine Ottocento e in circolo tra il 1920 e il 1921 durante il cosiddetto biennio rosso o, ancora, sotto il fascismo all’inizio degli anni ‘30 (Mama me dole, Benito, Benito, Fin che dura questa crisi).
Non solo, dunque, ”cante barbare, eredità dell’altra guerra” quali, analizzate oggi da Cecilia Demuru, fanno frequentemente capolino nelle pagine dei Piccoli maestri di Luigi Meneghello, così prodighe, com’è noto, di richiami al lascito anarchico dei profughi d’Italia di Pietro Gori (alias gli stornelli d’esilio però in salsa azionista e intitolati qui al Vigliacco Mussolini: “Nostra patria il mondo intero….Solo il pensiero salva l’umanità”) e comunque sempre ricche d’informazioni sul Vicentino, bensì pure frammenti di una innodia politica datata e fiorita molti anni innanzi nella stessa zona ma ben conservata in clandestinità per essere usata adesso contro Mussolini e i suoi ultimi seguaci (anche nell’ora della “resa dei conti”: Mussolini e la Petaci).
Se altrove, ad esempio nel Piemonte di Giorgio Bocca e di Nuto Revelli, l’intreccio fra denuncia e contestazione satirica del nemico fascista, sfocia in brani quali Pietà l’è morta e la Badoglieide mettendo cioè assieme, nel 1944, l’eredità di accorati canti alpini di tutte e due le guerre del Novecento (Sul ponte di Bassano e Sul ponte di Perati) e la cannibalizzazione melodica di una precisa canzonetta – E non vedi che sono toscano – sulla cui aria s’innestano le parole di Revelli e dei suoi compagni di Giustizia e Libertà, nel vasto territorio vicentino, analogamente, si annoverano molti prevedibili prelievi dallo stesso inesauribile serbatoio bellico appena ricordato. Essi comprendono quindi la “contrafattura”, attestata del resto quasi ovunque in Nord Italia, di tanti canti sia genericamente alpini sia della Grande guerra quali, qui, Otto settembre (sull’aria del più celebre standard italiano Addio padre e madre addio) e poi Bersagliere ha cento penne o Cosa rimiri mio bell’alpino, sia alcune felici parodie come Col parabello in spalla o El prete de Calvene (che prende il posto del “parroco d’Aosta” di Sul paiòn). Nè manca l’evocazione di eloquenti soprannomi e nomignoli invalsi al tempo della guerra civile: ad esempio il “Vedemo, spetemo” di Bojorno presente già in Meneghello e ancor più negli appunti di Renzo Ghiotto ritrovati da sua figlia Camilla e inseriti in un bel romanzo da lei intitolato al nome di battaglia del padre (Tempesta).
Non meno originali risultano i compianti dettati da tristi avvenimenti che avevano avuto un fortissimo impatto emotivo sulle popolazioni come la deportazione in Germania di molti renitenti alla leva (Il 26 agosto) o come il tragico rastrellamento del Grappa e le conseguenti impiccagioni seriali dei “ribelli” a Bassano del settembre 1944 (E lassù sul Monte Grappa calco musicale di Lassù sulla montagna).
In almeno un paio di occasioni, infine, il lavoro di scavo e di raccolta riesce a integrare le notizie su episodi di torture e uccisioni perpetrate ai danni di partigiani e oppositori della RSI già documentati negli archivi pubblici, specie tra le carte delle Corti di Assise straordinarie dell’ultimo dopoguerra, dando una idea di come funzionino i meccanismi delle reminiscenze comunitarie rispetto alle violenze esercitate da feroci brigatisti neri sul tipo dei componenti della “Compagnia della morte” berica e dei membri della famigerata “banda Caneva” (dal cognome dei suoi principali esponenti, Fausto, Giacinto e Duilio fratelli del Federale repubblichino di Vicenza Giovanni) implicati prima nell’omicidio, per vendetta, nel maggio del ‘44 a Campiglia dei Berici, di Gerardo e Arnaldo Tagliaferro, due congiunti dell’arciprete antifascista di Schio, monsignor Girolamo (La canzone dei fratelli Tagliaferro), ma poi anche autori del massacro a Grancona, in giugno dello stesso anno, di sette giovani renitenti ai bandi repubblichini in procinto di darsi alla macchia, e attirati in un mortale tranello dai loro carnefici (La notte dell’8 di giugno). Di tali luttuosi avvenimenti serbano un ricordo speciale, ancor oggi, molti compaesani figli, nipoti e pronipoti di chi a quelle violenze ebbe modo di assistere o sulle quali potè raccogliere di persona, all’epoca, notizie e impressioni che si sarebbero meglio depositate man mano nella memoria collettiva dei luoghi anche grazie all’ausilio del canto popolare.
Prof. Emilio Franzina