Discorso della dr.ssa Patrizia Greco. Lambre di Monte di Malo, 4 luglio 2009.
Oggi ci troviamo qui per rinnovare il nostro infinito grazie ai partigiani e a tutti coloro che hanno contribuito con coraggio a liberare l’Italia non solo dall’occupazione nazista, ma anche e soprattutto da vent’anni di dittatura fascista. In particolare siamo qui per ricordare il sacrificio, in nome della libertà, di Ismene Manea, classe 1908; Domenico De Vicari, “Vas”, classe 1923, Luigi Pamato, “Bill“, classe 1926 e Mario Guzzon, “Cesare“, classe 1924.
Di Ismene sappiamo che era rientrato a Malo nell’estate del ’43 dopo 6 anni trascorsi in confino forzato a Ventotene, a causa della sua partecipazione alla guerra civile spagnola.
Già nel settembre del ’43, dopo la proclamazione dell’armistizio e l’immediata occupazione tedesca, Ismene cominciò ad organizzare, insieme al fratello Ferruccio, “Tar“, i primi gruppi di resistenti. Il gruppo da loro formato si ingrossò e rafforzò e in breve tempo divenne un punto di riferimento importante nella zona, per i giovani che andavano maturando la scelta resistenziale.
La forza, gli ideali e le azioni compiute da questo gruppo provocarono l’ira di tedeschi e repubblichini che subivano gli attacchi. I nazifascisti si decisero per l’annientamento del gruppo e dei loro capi, soprattutto dopo il ripetersi di azioni eclatanti che li avevano imbarazzati, una per tutte la cattura del commissario Cecchi, reclutatore di giovani per l’esercito di Salò, avvenuta in centro a Malo in pieno giorno.
Nel luglio 44 i nazifascisti decisero di tendere un’imboscata.
Ismene fu catturato qui, in località Lambre, da un gruppo di quaranta uomini. Egli non provò a scappare; le torture subite dopo l’arresto del 1937 da parte degli uomini di Franco e, in seguito, al rientro in Italia, dai fascisti, gli avevano lasciato un impedimento fisico che gli rendeva impossibile la fuga. Vani furono anche i tentativi del fratello Tar di liberarlo.
Ismene fu condotto in caserma Cella a Schio dove resistette per circa una settimana prima di perire a causa delle inumane torture alle quali fu sottoposto per tutto il periodo. Egli morì insieme a Gianni Penazzato, “Pompei“, nella notte del 12 luglio 1944, fedele ai propri ideali.
Il battaglione, poi brigata guidata da Tar, prese nel settembre di quello stesso anno il nome del fratello.
Solo nel 1966 Ismene fu insignito della medaglia d‟argento alla memoria.
Meno note sono le vicende su Domenico De Vicari, “Vas“, Luigi Pamato “Bill” e Mario Guzzon “Cesare“. Caddero tutti nel rastrellamento del 1 dicembre 1944, uno dei più duri compiuti in queste zone e che vide impegnati “nella caccia al partigiano” oltre 6000 uomini tra tedeschi e fascisti.
Vas, Bill e Cesare furono intercettati dai rastrellatori mentre si spostavano da Monte di Malo a Priabona. Si difesero strenuamente anche in combattimenti corpo a corpo, ma furono sopraffatti dalla superiorità numerica dei rastrellatori.
Bill e Cesare caddero quello stesso giorno; Vas, invece, catturato vivo, fu trasferito a Malo.
Il 2 dicembre fu impiccato nella pubblica piazza e la popolazione, come riportato anche nelle cronache parrocchiali di Malo, fu costretta ad assistere con “raccapriccio” all‟esecuzione. Il corpo, che presentava segni di tortura, fu lasciato esposto a monito per un paio di giorni, prima di essere consegnato per la sepoltura.
Ismene aveva 36 anni; Domenico De Vicari 21; Luigi Pamato 18 e Mario Guzzon 20.
Oggi siamo qui per ricordare il loro sacrificio che meriterebbe certo un riconoscimento più tangibile di un semplice grazie o del ritrovarsi annualmente davanti ad un cippo commemorativo, eppure la loro memoria deve essere tenuta viva anche con questi gesti giacché, ancora oggi, c’è chi dubita del contributo della Resistenza alla Liberazione d’Italia e più in generale del contributo dato all’affermazione di un’Italia democratica e repubblicana.
Quando nel settembre ’43 alcuni uomini scelsero la via della lotta e salirono sulle montagne per combattere il nazifascismo rischiando e offrendo la propria vita per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, la democrazia, principi sui quali si sarebbe costruita la futura convivenza civile, essi anteposero il Bene Comune al bene personale, a quello individuale.
Il Bene comune significò spesso il sacrificio estremo, ma questo sacrificio non spaventò e non allontanò, anzi conquistò molti.
Nessuno poteva immaginare nel ’43, dopo venti anni di dittatura che aveva organizzato il suo consenso abolendo le libertà individuali e politiche, che tanti individui sarebbero stati in grado di organizzarsi per chiedere la fine della guerra e della dittatura che l’aveva voluta.
Il sacrificio degli uomini e delle donne, dei civili e dei militari che si impegnarono per questi ideali, ci ha lasciato un’importante eredità, ci ha regalato una nazione nuova, democratica.
L’Italia fu allora una comunità capace di trovare nuovi modelli su cui costruire il futuro.
Il fascismo fu una tragedia perché imprigionò e uccise i suoi avversari; perché sciolse i partiti e chiuse i giornali; perché perseguitò le minoranze; perché trascinò l’Italia nella tragedia della guerra e dei bombardamenti e alterò le regole della convivenza civile, ma la Resistenza, in tutte le sue diverse componenti, contribuì a porre fine a questo, nonostante la guerra civile che inevitabilmente ne scaturì.
La Resistenza è stata un episodio brevissimo nella storia italiana. È durata troppo poco per cambiare davvero il mondo, come pensavano i partigiani nell’entusiasmo della lotta, ma è stata la sfida morale e politica vinta, contro la guerra e la dittatura.
È stata la libertà di immaginare il futuro.
Molti ideali resistenziali sono stati disattesi e sono rimasti utopia, ma i valori che la ispirarono sono stati e sono ancora linfa vitale a cui attingere.
L’eroismo dei combattenti la causa per cui essi si sono sacrificati, non possono essere cancellati e quando qualcuno dà un giudizio di equidistanza tra fascismo e Resistenza sulla base del concetto che i morti sono tutti uguali, apre la porta ad una revisione della storia in cui non solo i morti sono tutti uguali, ma sono tutte uguali anche le ragioni per cui sono morti.
Ma non è stato così.
C‟è stata una parte giusta che ha lottato e vinto contro una parte sbagliata.
La storia è storia e non la si può riscrivere.
I fatti non possono essere cambiati.
Oltre sessant’anni non possono far dimenticare ciò che il fascismo e il nazismo furono veramente. I campi di sterminio restano i campi di sterminio, le stragi nazifasciste rimangono incancellabili, così come il fascismo resta una dittatura.
La Resistenza è troppo importante, troppo solenne per poter essere abbassata ad una disputa politica che cambia valore a seconda del momento politico.
Fu e rimane una dimostrazione di democrazia.
Fu e rimane il punto di partenza di un Italia impensabile sotto la dittatura, un Italia che fu capace di rinnovarsi.
La Resistenza non può essere cancellata dalla memoria collettiva o relegata alla festa del 25 aprile, proprio perché ha aperto una strada, ha mostrato un modello ancora valido, quello di una democrazia rappresentativa di diverse istanze, una democrazia conquistata pagando un caro prezzo, un tributo di sangue altissimo.
Questo passato e questi sacrifici occorre tenerli presenti, proprio per evitare che tornino quei dis-valori, quelle prevaricazioni e intolleranze che sono, invece, patrimonio delle dittature e dei fascismi in tutto il mondo.
È un dovere e un diritto difendere gli ideali per i quali 60 anni fa sono morte tante persone, tanti giovani.
La democrazia è certo anche una macchina complessa e delicata e fragile e va vigilata e controllata affinché non si inceppi.
Essa va esercitata ogni giorno e nella parte dei diritti e in quella dei doveri, non può essere considerata un involucro formale.
Non si può dare per scontato che la libertà, la tolleranza, il rispetto della persona siano conquiste acquisite una volta per tutte, anzi, questi ideali vanno coltivati e difesi giorno per giorno, anche in Italia.
Libertà e uguaglianza e tolleranza devono restare valori e diritti indiscussi; l’informazione non dovrebbe subire censure; tutti dovrebbero avere pari opportunità per esprimere liberamente le proprie idee politiche e religiose all’interno di un agone democratico.
L’unica politica di respingimento pensabile è quella nei confronti delle intolleranze e dei nuovi fascismi.
Sembrano frasi vuote e già sentite, ma oggi che gli ideali forti che ispirarono la Resistenza sono sempre più latenti, in questo momento in cui l’Italia è toccata da una grave crisi economica e si trova a fronteggiare pesanti attacchi all‟ordinamento democratico e costituzionale, queste idealità vanno sottolineate e ricordate quotidianamente.
La crisi degli ideali in atto è ampia e generalizzata e non colpisce solo la rappresentanza politica in senso stretto.
Questa crisi allontana gli individui dalla politica, dal desiderio di essere soggetto di un necessario cambiamento; allontana dai sentimenti di altruismo e solidarietà.
Questa perdita di ideali conduce verso una deriva antidemocratica ed autoritaria e spinge parte del paese a riconoscersi in un presunto uomo forte, ma ricordando i valori che ispirarono la Resistenza possiamo ancora una volta proteggere l’Italia da disegni eversivi e da facili populismi che condurrebbero verso nuove dittature.
I valori della Resistenza devono segnare un momento di riflessione; essi devono essere antidoto e monito all’individualismo, alla barbarie, alla dittatura, alla guerra.
Non esiste futuro senza memoria.
La democrazia è di tutti, la cosa pubblica siamo noi, a noi il compito di proteggerla da quell‟indifferenza che Gramsci chiamò parassitismo e vigliaccheria.
Proprio con un brano tratto da “Odio agli indifferenti” scritto nel 1917 vorrei chiudere il mio intervento.
“Credo che vivere voglia dire essere partigiani […].
Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano.
L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. […]
L’indifferenza è il peso morto della storia. […]
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […]
Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, […] avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare[…].
Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. […] Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, […] chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? ”.
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