La Resistenza etica delle donne

La mia riflessione sulla “Resistenza delle donne” in occasione del 25 Aprile 2020 prende spunto da un libro di Valeria Babini, uscito di recente per le edizioni La Tartaruga di Milano, intitolato Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione (Milano, La Tartaruga, 2018, pp. 280).


Un libro che mi ha intrigato fin dal titolo perché mi provocava su una tematica che da qualche anno occupa la mia mente e su cui ho riflettuto, seppur in maniera ancora non sistematica e ho condiviso parte delle mie riflessioni in qualche evento pubblico. Procedendo nella lettura, mi sono venute incontro le scrittrici che hanno scandito il mio viaggio dentro la scrittura delle donne, e in parte anche il mio percorso di formazione e che, con modalità diverse, la Resistenza l’avevano vissuta o vista molto da vicino:

  1. Natalia Ginzburg, moglie di Leone Ginzburg, avvicinata all’età di dodici anni attraverso quel volumetto magico che era stato per me Le piccole virtù, di cui conservo ancora la prima edizione Einaudi con le sottolineature e le annotazioni della mia scrittura un po’ infantile, e a seguire Lessico famigliare, sempre nella prima edizione Einaudi.
  2. Anna Banti con la sua Artemisia e la scoperta del “lavoro congeniale” per una donna.
  3. Alba De Cespedes con il romanzo Dalla parte di lei, scoperta per me un po’ tardiva ma non meno affascinante e coinvolgente.

Il lavoro di Valeria Babini è andato a toccare delle corde sensibili, ha fatto risuonare dentro di me temi e nomi condivisi, soprattutto per le problematiche affrontate nel capitolo primo, Un’altra Resistenza, e nel capitolo terzo, Il dovere di parteggiare.
Partiamo dalla riflessione su Un’altra Resistenza: è importante riflettere ed avere consapevolezza che nel «lungo inverno» dell’occupazione tedesca «le donne hanno partecipato alla lotta di Liberazione e alla Resistenza […] nei modi più diversi» e soprattutto che «non tutte hanno imbracciato le armi. Alcune di loro hanno scritto, parlato alla radio, istigato al sabotaggio, alla rivolta contro il nazifascismo: insomma hanno usato le parole come armi» (p. 9). Personalmente non condivido questa assimilazione ‘parole’//‘armi’, perché le parole possono ferire ma non uccidere, le armi invece uccidono sempre! Condivido invece la sottolineatura sulla partecipazione attiva delle donne alla Resistenza attraverso la parola, la formazione delle coscienze, l’assunzione di consapevolezza e le varie forme di disobbedienza, di non collaborazione, di resilienza.
Accanto alla Resistenza ‘agita’, quella delle staffette partigiane, delle donne con il mitra in mano, di cui negli ultimi decenni sono state raccolte numerose e importanti testimonianze e storie di vita, c’è stata una Resistenza ‘del pensiero’, nata da un’impellente necessità, da un impulso morale a stare dalla parte dell’umanità, della libertà e della giustizia: «Mi sembra che qualcosa per la battaglia e per le armi non possiamo fare, ma qualcosa per la nuova coscienza dell’italiano (e dell’italiana) sì» (Dal diario di Alba De Cespedes, del 6 agosto 1943).

Babini, in linea con altri storici, parla in proposito, opportunamente, di “Resistenza civile”, ma io parlerei anche di “Resistenza etica”. E provo a spiegarvi perché, proprio partendo dal caso Alba De Cespedes che dal 1 dicembre 1943 conduce una rubrica radiofonica, “La voce di Clorinda” da Radio Bari, per tenere i collegamenti e inviare messaggi agli Italiani e alle Italiane che vivevano nelle zone ancora controllate dai Tedeschi, infondendo loro coraggio e facendo sentire una vicinanza morale e civile.

Mi sono interrogata su che “tipo di resistenza” sia quella che De Cespedes racconta attraverso il personaggio di Alessandra nel suo romanzo lungo Dalla parte di lei, pubblicato da Mondadori nel 1949.

Il romanzo Dalla parte di lei non vuole costruire miti, anzi cerca di de-eroicizzare la resistenza; soprattutto è un romanzo che – per primo e forse unico – racconta la resistenza dalla parte di lei, di una donna che arriva all’impegno civile attraverso un percorso di assunzione di consapevolezza non ideologico, bensì personale, individuale, intimo, quasi mistico. Nel mettersi al mondo Alessandra scopre l’amore e poi – progressivamente – scopre che la vera felicità non può essere un fatto singolare, privato, bensì deve passare attraverso la relazione con l’altro e con la polis. Il suo “mettersi nel mondo” con la scelta conseguente di “agire” per il bene di tutti è una modalità etica per capire l’altro/gli altri e sforzarsi di capire è già un modo di amare.

Nelle narrazioni del «lungo giorno», che copre il periodo dall’8 settembre 1943 al giugno 1944, non ci sono eventi eclatanti, eroici e/o drammatici, non si raccontano imprese: al centro troviamo due donne che, per la prima volta, dialogano tra loro e cercano di capirsi, di mettere in parola sentimenti e paure, di dare voce all’«intelligenza del sentire» e anche dell’agire (nascondere i documenti nel vaso di gelsomino, depistare i tedeschi, ecc.). La protagonista nomina due modi di sentire e di vivere l’amore e di lavorare a costruire la felicità pubblica e privata: «Siamo arrivati alle stesse conclusioni attraverso strade diverse. La mia è stata più lunga e non credo di sbagliare dicendo che è stata anche più difficile: ma adesso bisogna che lui capisca me» (p. 474). E aggiunge: «Mi pareva che il solo modo di raggiungerlo fosse quello di lavorare insieme, pur di lontano» (p. 476).

Tralascio qui il discorso sul romanzo L’Agnese va a morire di Viganò perché parte da presupposti molto diversi e, pur essendo scritto da una donna, appartiene a quel ricco filone della memorialistica post-resistenziale già ampiamente studiata.

Facciamo invece un passo indietro: nel 1946, a guerra appena conclusa, si tiene a Ginevra un Rencontre internationale sul tema dell’«Esprit européen». Gianfranco Contini se ne fa singolarissimo reporter, e, «critico […] nelle spoglie del cronista», ne fa uno scrupoloso resoconto nelle pagine della «Fiera letteraria». A proposito dell’esperienza resistenziale appena conclusa Contini annota:

La Resistenza è stata molte cose: ci saranno entrati spirito d’avventura, forza maggiore e infiniti altri ingredienti; ma è stata soprattutto impulso religioso. Ciò almeno vale per la gioventù italiana. […] La Resistenza coltivava una libertà per poterla sacrificare a un oggetto che ne decidesse degno, come sa chi ama o compie atti politici o pratica vita religiosa.

Quasi vent’anni dopo, nel 1964 esce il libro di Luigi Meneghello, I piccoli maestri, che l’autore presenta così: «Nel mio libro ho voluto registrare la posizione morale di un piccolo gruppo di partigiani vicentini, che eravamo poi io e i miei amici, come esempio di una merce di cui non c’è molta abbondanza nel nostro paese, la fede nell’autonomia assoluta della coscienza individuale. L’esperienza di questa singolare squadretta, frutto della scuola di un ignorato maestro, mi era sembrata, retrospettivamente, paradigmatica». E nella prefazione alla seconda edizione del 1976, precisa meglio: «Questo libro […] è stato scritto con un preciso proposito civile e culturale. […] Ho voluto in sostanza esprimere un modo di vedere la Resistenza che differisce radicalmente da quello divulgato (e non penso solo ai discorsi e alle celebrazioni ufficiali) – e cioè in chiave anti-eroica».

Eccola la “Resistenza etica” che il lavoro di Babini mette in evidenza e valorizza rileggendo e riscoprendo pagine dimenticate o ignorate: non solo De Cespedes, ma anche Fausta Cialente, Natalia Ginzburg, Anna Garofalo, Marise Ferro e tante altre di cui finora non avevamo mai sentito parlare.

Una “Resistenza etica” di cui hanno consapevolezza anche le donne-partigiane. Lascio la parola a una di loro (Lina Tridenti) che nella sua testimonianza afferma:

«Fu una presa di coscienza, un momento di autocritica, e l’aprirsi alla speranza. Era giusto liberarsi dei tedeschi, era giusto … per costruire un mondo diverso» (Voci di partigiane venete, Verona, Cierre, 2016).

In queste parole troviamo:

a) la consapevolezza di sé come soggetto storico e pensante (autocritica);

b) la consapevolezza del presente, del tempo della speranza, delle grandi aspettative per il mondo nuovo che si voleva costruire tutti e tutte insieme.


Valeria Babini in questo percorso di ricerca, recuperando una grande mole di documenti e testimonianze spesso inedite, ci ha fatto conoscere, riportandola in vita e sottraendola così all’oblio, una “Resistenza etica” compiuta dalle donne attraverso la scrittura giornalistica, la radio e altre forme di “non collaborazione” o addirittura di “sabotaggio” nei confronti dell’occupante, ma in primis attraverso una presa di coscienza individuale, un mettersi al mondo e nel mondo come soggetto politico.

Adriana Chemello