Il 18 ottobre 1944 a Foza fu perpetrato dai nazifascisti un vero e proprio eccidio.
Infatti, non per rappresaglia, né per altri motivi se non riconducibili all’odio e alla violenza, senza alcun processo, senza concedere loro nemmeno il conforto della religione, furono barbaramente uccise sette persone.
Esse furono condotte nei pressi di un trinceramento della prima guerra mondiale situato alle pendici dell’altura ove sorge la chiesetta di San Francesco.
Qui i tedeschi spararono freddamente ai condannati uccidendoli uno alla volta, sotto lo sguardo atterrito degli altri, che poi erano costretti con un palo a spingerne il cadavere nel trinceramento fin dentro una vecchia galleria.
I due Partigiani di Foza
erano molto giovani: Contri Amedeo aveva 24 anni, mentre Alberti Cirillo ne aveva solo 16.
Amedeo Contri detto Bolso [Notizie tratte da “Gente di Foza” di Luigi, Rossella e Gabriele Menegatti, p. 254] era stato arrestato il 15 ottobre, mentre tornava a casa dopo aver lavorato nei cantieri della Todt. Aveva saputo che la sua casa stava bruciando (i fascisti le avevano appiccato il fuoco perché avevano rinvenuto nella stalla delle armi), e volle andare a vedere. In contrada Tommasini (detta Stona o Stonech, “altura delle pietre” in cimbro, n.d.c.), la Marioi (Maria Lunardi, coniugata con Costante Stona, nato nel 1889) gli disse: «Amedeo, scappa, va via, non tornare a casa, perché stanno cercando tuo fratello Bandito [Severino Contri] e hanno portato via anche la tua maregna”. Ma Bolso volle andare comunque e fu fatto prigioniero delle Brigate Nere. Il giorno dopo, nella sala in cui erano tenuti prigionieri, arrivò un milite fascista e chiamò [tra gli altri anche] Amedeo detto Bolso, per portarli dal capitano Casadei.. .. Bolso era già passato tra le mani dei carnefici e anche quel giorno fu chiamato ed entrò per primo nella stanza del Casadei: La porta rimase socchiusa, i suoi compagni videro che lo spogliarono e con una cinghia, alla cui estremità c’era un anello d’acciaio, lo picchiarono selvaggiamente puntandogli addosso minacciosamente anche una pistola.
Cirillo Alberti detto Fajo [Notizie tratte da “Gente di Foza” di Luigi, Rossella e Gabriele Menegatti, p. 254] era della classe 1928. In Valpiana, la sua contrada c’era un cantiere della Todt. Lo comandava un tedesco di nome Kaspar, assistito da alcune guardie trentine. Cirillo, aperto e smaliziato come tutti i giovani di quell’età, entrò in confidenza con loro e, per mostrare la sua abilità, volle far vedere come sapeva montare e smontare velocemente il mitra. Essi osservarono e capirono che se ne intendeva. Lo segnalarono e si prepararono per catturarlo.
Cosa che avvenne quel giorno di ottobre, il 15, quando fascisti e tedeschi, per intimidire gli abitanti di Foza, piazzarono al centro del paese, davanti alla casa di Ernesto Grandotto Fornaro, proprio all’inizio della piazza, camion, mitragliatrici e fucili, dicendo che avrebbero bruciato le case. I fascisti delle brigate nere, guidate dal capitano Casadei, alla ricerca di partigiani e renitenti, iniziarono così un vasto rastrellamento nelle varie contrade portando con loro le autorità del paese e costringendo a seguirli persino il parroco, don Angelo. Cirillo fu arrestato e poi incendiarono la sua casa. Altrettanto fecero poi con la casa di Contri Amedeo, che poi fu arrestato come detto sopra.
Cirillo fu anche lui torturato, ma non fiatò mai e per sua bocca nessuno venne a morte.
Testimonianze affermano che, quando fu trascinato al martirio, piangeva ed urlava in modo straziante, tanto da essere sentito chiaramente da una donna che, pur lontana, ha udito anche i colpi della fucilazione. Qualcuno addirittura sostiene che i lamenti dei condannati erano uditi anche dall’altra parte della valle, fino a Stoccareddo.
I due russi
forse erano prigionieri di guerra in fuga, che si erano uniti ai partigiani, oppure, come sostiene B. Gramola, erano due disertori dell’esercito tedesco. Le loro salme furono richieste dalla Russia, ma non restituite per l’impossibilità di riconoscerle.
Di uno infatti si conosce solamente il nome e l’età: Nicolaj Smirnow di anni 27, classe 1917. Il nome e la data di nascita erano incisi sull’orologio che ancora aveva addosso quando la salma fu recuperata.
Il secondo indicato come “ignoto” probabilmente può essere identificato con il colonnello russo Dimitri, di cui parla Pierantonio Gios in “Controversie sulla Resistenza ad Asiago ed in Altipiano” (Asiago, luglio 2000, p. 35). Infatti lo storico sostiene che questo Dimitri, che faceva parte del gruppo di Fontanelle di Conco ed era stato presente all’uccisione dei due partigiani Garibaldini a Malga Silvagno, sia stato poi “trucidato il 18 ottobre 1944 nella valletta sotto il colle di San Francesco a Foza”. L’identificazione del soldato russo con quello ucciso a Foza è stata fornita da Primo Baù durante l’intervista del 16/4/81 rilasciata allo stesso P. Gios (cfr. GIOS, Resistenza, parrocchia e società, p. 250). Il colonnello Dimitri sarebbe lo stesso, del quale parla O. VANGELISTA, Guerriglia a nord, p. 29-73. Non si sa se Dimitri è il nome di battaglia oppure il nome proprio o entrambe le cose. Se fosse vero quest’ultima ipotesi egli potrebbe essere identificato con “Micailov Dmitri (Dmitrio)” un russo incluso nell’elenco dei partigiani stranieri in “Brigate d’Assalto Garemi” (1978, p. 174).
Secondo U.De Grandis (Malga Silvagno, 2011) il colonnello Dimitri è un prigioniero fuggito dal campo di concentramento di Vicenza (p. 109) localizzato nel campo di aviazione (p. 112).
I tre Partigiani originari di Canove erano stati catturati tre giorni prima, la mattina del 15 ottobre del 1944, durante un rastrellamento condotto in quell’abitato in seguito ad una spiata di un fascista del luogo.
Il più anziano dei tre era Bernar Gino che aveva 31 anni. Era un tipo taciturno, molto schivo e prevalentemente solitario. Per questo a Canove lo avevano soprannominato “il re del silenzio”. Fu torturato e martirizzato perché parlasse, ma anche se lo avesse voluto, non poteva dire nulla perché non sapeva nulla.
Tumolero Cirillo aveva 26 anni, era sposato da un anno con Bruna Lando e da poco era padre di un bimbo che avevano chiamato Ivan. Gestiva una macelleria ed era in contatto con i partigiani della Brigata garibaldina “Pino”, che riforniva spesso di vettovaglie.
Faceva parte invece della Brigata “Sette Comuni” diventata poi Divisione “Monte Ortigara”, l’altro partigiano di Canove catturato quel 15 ottobre 1944, Ambrosini Renato. Costui aveva vent’anni, era stato guardia di finanza in una compagnia che si sbandò in seguito all’armistizio reso noto l’8 settembre del ’43. Era un bravo partigiano, un tiratore formidabile e, tra l’altro, aveva preso parte da valoroso alla battaglia di Granezza. Ma ebbe poi la sfortuna di contrarre una grave malattia polmonare, che si era riacutizzata probabilmente per il fatto di dover dormire all’aperto, nei boschi umidi e già freddi. Per curarsi lasciò gli amici partigiani nei boschi e scese verso la propria abitazione. Fu proprio qui che fu preso durante quel rastrellamento e la sua malattia non servì a fargli risparmiare il suo tragico destino.
Così egli e gli altri due compaesani di Canove furono portati nel carcere di Asiago e qui torturati e seviziati per tre giorni prima di essere condotti a Foza e, insieme ai due partigiani del posto e ai due russi, uccisi il 18 ottobre 1944 e nascosti in quel trinceramento.
I sette furono letteralmente nascosti dai tedeschi, perché ai loro famigliari in cerca di notizie, rispondevano che li avevano spediti in Germania. Credevano di farla franca, ma, secondo alcune testimonianze, quella donna che aveva sentito le grida del ragazzo di Foza e gli spari, avvertì forse il parroco o qualche altra persona, così che, dopo alcuni giorni di ricerca, furono rinvenuti i poveri corpi straziati.
Altre testimonianze affermano che Giacomo Omizzolo Cursor, che vide il camion con i condannati dirigersi verso S. Francesco,, raggiunse il mattino dopo Dilvo Rodeghiero, pratico del posto, e seguendo le orme lasciate si portarono insieme verso il luogo del massacro. Dalla galleria videro spuntare le due gambe dell’ultimo assassinato con un colpo alla nuca. Giache Sette (Giacomo Menegatti Sette) e Ussiano Cavabuse (Luciano Menegatti Cavabuse) furono incaricati di ricomporre le salme e Giache, che era ritornato dalla guerra in Africa, disse che non aveva mai visto uno spettacolo simile.
Marcello Ambrosini, fratello di Renato, afferma che fu il padre, Sante Ambrosini, accorso sul posto dell’eccidio ad individuare il corpo del figlio e che disperato se lo caricò in spalla portandolo su per la collina fin nei pressi del paese.
Il comandante di battaglione Federico Covolo “Broca”, per onorare Renato Ambrosini, volle intitolargli una compagnia di partigiani.
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