Le interpretazioni
Questi i fatti e i numeri. Quanto alle cause le discussioni sono ancora aperte e spesso influenzate da fattori non obiettivi e dalla mancanza di alcune documentazioni, ma al di là della complessità della questione gli storici hanno individuato alcune motivazioni fondamentali.
Ci sono due tesi contrapposte: una, sostenuta da settori della destra italiana, parla di “pulizia etnica” da parte degli “slavocomunisti”; l’altra, avanzata negli ambienti jugoslavi, riduce il fatto a una migrazione per motivi economici fomentata dalla propaganda italiana. Si tratta evidentemente di spiegazioni semplicistiche di un fenomeno ben più complesso, ma entrambe contengono una parte di verità.
Per quanto riguarda la “pulizia etnica” è vero che alcuni settori dell’OF (Osvobodilna Fronta, il fronte di liberazione jugoslavo costituito dai partiti antifascisti, corrispondente al CLN italiano) chiedevano la cacciata degli italiani da tutti i territori a est dell’Isonzo–Natisone, in ritorsione delle violenze subite durante la guerra. Ma si trattava di formazioni di centro e nazionaliste, quando di fatto la resistenza jugoslava era dominata dai comunisti di Tito. E la linea ufficiale dei comunisti jugoslavi era quella della “fratellanza italo–slava”, in nome dell’internazionalismo proletario. Sul campo però questa linea fu smentita dai fatti. Gli storici a questo riguardo hanno individuato una serie di ondeggiamenti, contraddizioni e ambiguità all’interno della gerarchia jugoslava, e non solo in questa. Il gruppo dirigente comunista intendeva imporre la trasformazione in senso socialista a qualsiasi costo, e usò metodi forse più radicali di quelli staliniani, che causarono migliaia di vittime in tutta la Jugoslavia, e in misura relativamente maggiore che nella Venezia Giulia. Qui però il processo rivoluzionario socialista assunse connotati decisamente nazionalistici, incoraggiati da esponenti di primo piano come il leader sloveno Kardelj, a danno degli italiani. Intimidazioni e violenze avevano un pretesto politico: infatti la “fratellanza italo–slava” riguardava gli “italiani onesti e buoni”, non i fascisti o chiunque avesse avuto a che fare con l’occupante nazifascista; inoltre si dovevano perseguire i “nemici del popolo”, cioè coloro che difendevano il vecchio sistema economico e sociale. Di fatto diventavano “nemici del popolo” tutti coloro che non seguivano le direttive del nuovo potere. In quel periodo caotico per la Jugoslavia i centri di potere si trovavano a Belgrado (livello federale), per la zona in questione a Lubiana e Zagabria (livello nazionale), e infine a livello dei quadri locali.
La commistione nazionalismo–comunismo a livello locale e la scollatura con il potere centrale è particolarmente evidente in Venezia Giulia e Istria, dove il revanscismo sloveno e croato tendeva a identificare i nemici del popolo attraverso l’equazione: italiano uguale fascista. Così si assiste a una politica contraddittoria: le autorità centrali emanavano direttive per frenare l’esodo italiano, mentre i militanti locali (slavi ma anche italiani) invitavano i dissenzienti ad andarsene, a volte usando intimidazioni squadristiche. Le accuse a questo riguardo indussero il governo jugoslavo a costituire, nel 1951, una commissione d’inchiesta. Questa accertò alcune vicende violente, e identificò il motivo principale della fuga da quelle zone nel cosiddetto “lavoro volontario”, organizzato dalle autorità locali per ripristinare le infrastrutture distrutte dalla guerra: ferrovie, miniere, fabbriche. In realtà si trattava di lavoro coatto, in condizioni durissime, spesso paragonato ai lager. Però non riguardava solo gli italiani, e forse può spiegare la consistente quota di residenti di etnia slava (valutabile intorno al 20 %) che partecipò all’Esodo.
Tale spiegazione comunque va nella direzione della “migrazione per motivi economici” sostenuta da alcuni storici jugoslavi. Infatti Istria e Venezia Giulia nel dopoguerra subirono una grave crisi economica, determinata dall’imposizione del nuovo modello di economia statalizzata e dalla chiusura della frontiera verso Trieste, il principale sbocco dei prodotti della zona. La crisi colpì soprattutto la borghesia cittadina, in gran parte italiana, e anche molti settori della classe operaia condizionati dalla chiusura o dal trasferimento delle fabbriche, tanto che vi furono scioperi contro le autorità jugoslave cui parteciparono anche militanti comunisti. Quanto alla “propaganda italiana” è stata rilevata una certa tendenza della stampa ad esasperare i toni, creando un clima di paura. Sintomatico che l’esodo da Pola cominci prima della firma del trattato, quando la città era ancora sotto l’amministrazione angloamericana, sulla scia di una campagna di stampa che richiamava la vicenda delle foibe spesso riportando notizie esagerate o false riguardo la “barbarie slava”.
Per quanto riguarda le mosse politiche di parte italiana di fronte a questi avvenimenti, molte critiche colpirono De Gasperi, democristiano presidente del consiglio, e il ministro Togliatti, segretario del partito “fratello” di quello al potere in Jugoslavia. La storiografia ha ridimensionato queste critiche: i due erano forse i politici italiani con più vasta esperienza internazionale, e perciò consapevoli della limitata possibilità di azione dell’Italia. De Gasperi intendeva frenare l’esodo attraverso la trattativa cercando l’appoggio americano, come nella questione dell’Alto Adige, tuttavia le circostanze e l’evoluzione dei rapporti internazionali bloccarono le sue iniziative. Quanto a Togliatti, si trovava in mezzo tra il dovere di solidarietà internazionalista verso i comunisti jugoslavi e la politica di collaborazione con gli altri partiti antifascisti del CLN, che sostenevano le ragioni italiane nella vicenda del confine orientale. Comunque Togliatti decise per la seconda opzione, votando gli ordini del giorno governativi del 3 e 12 maggio 1945 che condannavano l’occupazione jugoslava e rivendicavano Trieste all’Italia. Questa decisione però scontentò parte della base del partito, dove il mito della rivoluzione titina trovava largo seguito, e in particolare i comunisti monfalconesi e triestini, favorevoli all’annessione jugoslava, a tal punto che nel 1946 i quadri locali decisero la scissione e l’autonomia costituendo il PCRG, partito comunista regione giulia, che incoraggiava il cosiddetto “controesodo”, cioè la migrazione di militanti verso la Jugoslavia. L’esito fu infelice, perché con la rottura tra Tito e Stalin si ebbero ulteriori scissioni e , nelle zone passate alla Jugoslavia, l’avvio di persecuzioni verso i militanti comunisti, italiani compresi, rimasti legati alle posizioni internazionaliste.
Infine le contraddizioni erano presenti pure tra gli alleati occidentali. Tra americani e inglesi non c’era identità di vedute, e in particolare questi ultimi erano poco propensi a sostenere le ragioni italiane, sia perché avevano instaurato un rapporto di collaborazione con Tito sia perché esisteva un certo risentimento verso l’Italia, che , come ricordava Churchill, aveva causato la perdita di 200 mila soldati inglesi nei vari fronti di guerra. Anche i rapporti tra i soldati britannici (i quali, e questo spesso viene dimenticato, costituirono la maggior parte delle forze alleate impegnate nella liberazione dell’Italia) e la popolazione locale non erano dei migliori, tanto che il giorno della firma del Trattato, il 10 febbraio 1947, il comandantedel presidio alleato di Pola, il generale De Winton, veniva assassinato da una nazionalista italiana. Il deterioramento delle relazioni con l’URSS convinse successivamente gli occidentali ad assumere una posizione più rigida verso la Jugoslavia, al punto che si arrivò alla Nota tripartita del 20 marzo 1948, con la quale USA, Francia e Gran Bretagna proponevano al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di assegnare all’Italia tutto il Territorio libero di Trieste, compresa quindi la zona di Capodistria. La proposta non ebbe seguito, anche perché poco dopo, il 28 giugno dello stesso anno, veniva resa pubblica la risoluzione di condanna del deviazionismo jugoslavo decisa dal Cominform: la rottura tra Tito e il resto dello schieramento comunista legato a Stalin apriva nuove prospettive rispetto alla Jugoslavia, modificando ancora una volta l’atteggiamento delle potenze occidentali. Quindi la questione del Territorio libero di Trieste si trascinò fino al 1954, quando il Memorandum di Londra assegnò la zona A all’Italia e la zona B alla Jugoslavia, provocando l’ultima ondata di esuli.
Politicamente la questione pareva chiusa negli anni ’70, quando la normalizzazione dei rapporti italo–jugoslavi portò agli accordi di Osimo, ma la dissoluzione della federazione jugoslava ha riacceso i contrasti tra i vari nazionalismi, compreso quello italiano. Per superare queste contrapposizioni è necessario il riconoscimento delle responsabilità relative agli avvenimenti in questione. In particolare l’Italia democratica deve assumere il peso storico, ora ipocritamente nascosto, delle persecuzioni fasciste e dei crimini commessi dall’esercito nelle zone jugoslave occupate dal 1941 al 1943, così come le repubbliche ex jugoslave devono fare i conti con l’eredità del regime di Tito e chiarire il destino dei deportati del maggio 1945. La vicenda del Confine orientale ora forse può essere definitivamente chiusa con l’entrata di Slovenia e Croazia nell’Unione Europea, superando i particolarismi nazionalistici in un ambito di collaborazione e amicizia tra popoli e culture diversi ma uniti oltre che dal reciproco interesse da una secolare storia di comune convivenza.