Il problema del confine orientale italiano nel novecento

La seconda guerra mondiale

L’inizio dell’avventura bellica nazista e la successiva entrata in guerra dell’Italia determinò anche un inasprimento del conflitto tra slavi e italiani nella Venezia Giulia. Si intensificò l’attività dei gruppi armati indipendentisti sloveni e croati, con attentati a ponti e ferrovie, agguati a carabinieri, miliziani e gerarchi fascisti. Parallelamente si alzò il livello della repressione fascista, con le autorità italiane che ormai guardavano con preoccupazione il crescente fermento tra gli “allogeni”. Un ulteriore salto di qualità si verificò dopo l’aggressione nazifascista alla Jugoslavia il 6 aprile 1941 e il successivo smembramento del regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Infatti l’esercito italiano occupò una consistente parte della Jugoslavia: in particolare la Slovenia meridionale venne annessa alla Venezia Giulia, costituendo la provincia di Lubiana; la Lika croata venne occupata e la Dalmazia, fino a Spalato, annessa alla provincia di Zara. Inoltre il Kosovo fu annesso all’Albania, già aggregata all’Italia, e nel Montenegro occupato venne insediato un governatore italiano.

Però l’invasione italo–germanica accese la miccia della polveriera balcanica, innescando ovunque rivolte armate, vendette interetniche, stragi feroci. La repressione nazifascista fu durissima, e anche il Regio esercito si macchiò di crimini efferati, paragonabili a quelli dei nazisti tedeschi. Alla fine della guerra le autorità jugoslave accusarono gli occupanti italiani della morte di trecentomila civili, chiedendo l’estradizione di centinaia di criminali di guerra italiani. Questa non venne mai concessa, e tale fatto condizionò per molto tempo (e condiziona ancora oggi) le relazioni italo–slave. In effetti molti documenti delle truppe italiane di occupazione dopo l’otto settembre e lo sfaldamento dell’esercito italiano finirono nelle mani dei resistenti jugoslavi e ancor oggi sono conservati nei vari archivi delle repubbliche ex–jugoslave; tali documenti confermano precise responsabilità dell’Italia fascista in fatto di crimini di guerra.

Anche nelle province di Gorizia, Trieste e Pola, a partire dal 1940, furono assunti ulteriori provvedimenti contro i cittadini di etnia slava. I militari giuliani di origine slava vennero allontanati dalla zona e successivamente inquadrati nei battaglioni SP (sospetti politici) e isolati in speciali campi in Sicilia e Sardegna. Nella provincia di Lubiana, formalmente appartenente alla Venezia Giulia, tra il 1941 e il 1943 vennero uccisi 12.000 civili e altri 35 mila furono deportati (in tutto contava 330 mila abitanti); la città di Lubiana venne completamente circondata con una barriera di filo spinato e un quarto dei suoi abitanti venne incarcerato. Molti villaggi furono bombardati dall’artiglieria o dall’aviazione, con la distruzione di decine di migliaia di abitazioni. Il prefetto Grazioli, in accordo con il generale Robotti, propose di deportare l’intera popolazione sostituendola con immigrati italiani.

Tale comportamento invece di scoraggiare favoriva l’attività insurrezionale. I militari di origine slava disertavano, vi erano scioperi, sabotaggi, attentati, e la popolazione civile appoggiava i rivoltosi.
Il Carso era battuto da bande armate che rendevano difficili e pericolose le comunicazioni tra le città della Venezia Giulia. Questa prima attività partigiana in territorio italiano è documentata dagli atti del Tribunale Speciale, che comminò numerose pesanti condanne, spesso alla fucilazione. Tra i condannati ci sono nomi indubitabilmente italiani, segno di una saldatura tra il ribellismo slavo e l’antifascismo militante italiano. La situazione peggiorò nel 1942, quando le sorti del conflitto mondiale cominciarono a volgersi contro l’asse italo-tedesco. Molti territori giuliani erano di fatto controllati dai partigiani, e la repressione, guidata dai generali Roatta, Robotti e Gambara, diventava sempre più feroce.

Tra il ’42 e il ’43 la storia italiana registra una delle sue pagine più vergognose: l’internamento di circa 50 mila civili di etnia slava in campi di concentramento gestiti dall’esercito italiano. Si trattava in massima parte di vecchi, donne e bambini – gli uomini validi si erano dati alla macchia – provenienti dalle zone ad elevata attività partigiana. Ne morirono oltre undicimila, di fame, maltrattamenti e malattie. La mortalità nel campo dell’isola di Arbe risulta percentualmente più elevata di quella del lager nazista di Dachau. È vero che alcuni denunciarono questa ignominia, ufficiali, medici e religiosi, ma incontrarono il silenzio delle autorità fasciste e delle alte gerarchie ecclesiastiche o le ciniche risposte dei generali. Ad esempio al medico provinciale che segnalava le morti per fame nel campo di Arbe il generale Robotti rispondeva che si trattava di un campo di concentramento e non di “ingrassamento”; quando il cappellano militare del campo di Chiesanuova, vicino a Padova, don Cocioni, segnalò al vescovo la situazione degli internati, lo stesso Robotti lo fece trasferire.

Questa era quindi la situazione alla vigilia del crollo dell’Italia fascista. Quando il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo dichiarò decaduto Mussolini, nella Venezia Giulia la guerriglia partigiana infuriava da tempo, con l’ appoggio della popolazione slava. La repressione operata dall’esercito italiano continuò anche durante la dittatura di Badoglio, specie nelle zone slovene. La situazione invece appariva più tranquilla in Istria, perché la guerriglia era localizzata a est di Fiume, nelle zone croate occupate dall’esercito italiano, dove si registrarono numerose stragi di civili.

Nel breve periodo badogliano non vennero segnalati particolari fermenti, anche perché sul confine orientale erano schierate due armate, con 150 mila effettivi. Ma la resa italiana agli Alleati annunciata l’otto settembre determinò il loro sfaldamento; il comandante, generale Gambara, si mise al servizio dei tedeschi. Gran parte dei soldati partì verso ovest, abbandonando accantonamenti e armi. Non risultano particolari atti di violenza nei loro confronti da parte della popolazione slava. Le armi abbandonate finirono nelle mani dei partigiani dando ulteriore consistenza alla ribellione. Nell’Istria si organizzarono anche locali forme di amministrazione democratica. Ma nelle campagne dell’Istria meridionale esplose un’inattesa ondata di violenza.

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