Orazione di Gianandrea Borsato
Valdagno, Ponte dei Nori, 30 giugno 2024
Autorità civili, militari e religiose, delegazione della Città gemellata di Prien am Chiemsee, rappresentanti delle Associazioni partigiane, combattentistiche e d’arma, cittadine e cittadini, è con onore e anche con un po’ di emozione che prendo la parola per commemorare i Sette Martiri di Valdagno in occasione dell’80° anniversario della loro fucilazione, avvenuta il 3 luglio 1944 presso l’ex poligono di tiro a segno in località Ponte dei Nori.
Ringrazio vivamente per l’invito la Presidente della Sezione A.N.P.I. di Valdagno Franca Dal Maso, il Sindaco Maurizio Zordan e l’Amministrazione comunale. È una cerimonia cui da tanti anni prendo parte, usualmente in veste di alfiere, giungendo dalla mia Città di Bassano del Grappa, con la bandiera della mia Sezione, per ricordare, con gli altri Caduti, un nostro concittadino, Alfeo Guadagnin, tra le figure più illustri di Martiri della Resistenza bassanese.
La vicenda di cui oggi facciamo qui memoria è nota e di essa si trova copiosa documentazione nella storiografia della Resistenza vicentina. Fortunatamente per noi, generazioni più giovani, abbondano materiali di studio e di approfondimento sugli episodi e sui protagonisti della Lotta di Liberazione nella nostra Provincia: si è trattato di una Resistenza che, ancorché spesso poco risalti nella narrazione della Resistenza italiana rispetto ad altre Province o Regioni, ha dato un alto tributo di sangue e si è caratterizzata per una ricchezza di fermenti e per una variegata diversità di esperienze locali, e che l’amico storico prof. Benito Gramola ama sintetizzare con l’espressione di “Resistenza policentrica” (cfr. BENITO GRAMOLA, “Cronistoria della Resistenza Armata Vicentina 1943- 1945” – Tomo 1° – Divisioni “Pasubio” e “Garemi” – anno 2016).
Nel ripercorrere sinteticamente i fatti di Ponte di Nori, farò riferimento ad alcuni spezzoni della ricostruzione storiografica, a cura di Giorgio Fin, che si può agevolmente trovare pure nel sito web dell’A.N.P.I. provinciale di Vicenza e che è tratta soprattutto dall’opera dello storico prof. Maurizio Dal Lago e da altre fonti (MAURIZIO DAL LAGO, Valdagno 3 luglio 1944, I Sette Martiri, Valdagno, 2002. EUGENIO CANDIAGO ENIGMA, La passione del Chiampo, Valdagno, 1945. LUIGI RIGONI, Giorni d’inferno nell’alta Valle del Chiampo, Arzignano, 1989. PIETRO CASTAGNA, Giorni tristi di Marana, manoscritto).
L’uccisione dei Sette Martiri di Valdagno fu un avvenimento particolare, perché non fu solo una rappresaglia tedesca per l’uccisione di un ufficiale della Wehrmacht, ma fu un’azione programmata di repressione politica portata a termine con la determinante collaborazione dei fascisti locali. L’antefatto ebbe luogo venerdì 30 giugno 1944, quando l’aiutante di reparto Gherard Suder arrivò alla stazione di Verona di ritorno da una licenza trascorsa nella sua città natale, Berlino. Doveva rientrare nel suo reparto a Valdagno. Poiché temeva attacchi partigiani lungo il tragitto, telefonò a Valdagno perché gli mandassero un’auto e una scorta. Il maggiore Ludwig Diebold, comandante della guarnigione di Valdagno, accolse la richiesta del suo aiutante ed incaricò dell’operazione il tenente Walter Führ. […] Qualche chilometro più a nord di Montecchio, era nascosta in un campo di grano una pattuglia partigiana. Era la pattuglia volante comandata da Francesco Gasparotto “Furia” ed era partita da Selva di Trissino per ordine di Alfredo Rigodanzo “Ermenegildo”, all’epoca responsabile di un distaccamento appartenente al battaglione “Stella”, comandato da Luigi Pierobon “Dante” e da Clemente Lampioni “Pino”, e facente parte della XXX brigata garibaldina “Garemi”[…]. All’arrivo dell’autocarro tedesco i partigiani aprirono il fuoco colpendo a morte il tenente Führ. L’autista perse il controllo del mezzo che uscì di strada sulla destra fermandosi al limitare del bosco. I militari scesero e risposero al fuoco. Il maresciallo Ernest Utz si trovò a faccia a faccia con il partigiano Carlo Battistella “Piccolo”. I due spararono uno contro l’altro e caddero entrambi, il partigiano privo di vita e il maresciallo tedesco gravemente ferito, tanto che morirà il 10 luglio.
La rappresaglia prese avvio il giorno successivo e fu un’operazione che coinvolse in rapida successione antifascisti di Valdagno, Vicenza e Bassano, i partigiani e le popolazioni di Marana e di Castelvecchio, terrorizzando gli abitanti della Valle dell’Agno e del Chiampo. Nel pomeriggio di sabato 1° luglio i fascisti arrestarono Ferruccio Baù e Alfeo Guadagnin.
Ferruccio Baù era conosciuto come elemento pericoloso fin dal 27 luglio 1943, quando dopo la caduta del fascismo, insieme ad altri due compagni era salito in municipio ed aveva gettato dal balcone in piazza le fotografie del Duce. Per questo fatto nel mese di settembre, dopo il ritorno al potere del fascismo della Rsi, era stato arrestato e aveva passato alcuni mesi nelle carceri di Vicenza dove aveva stretto amicizia con Alfeo Guadagnin, un socialista di Bassano che si riconosceva nelle idee di Turati e Matteotti. Costui fu tra i primi a promuovere ed organizzare la resistenza nel bassanese. Per questo fu arrestato nel marzo del 1944, torturato e poi tradotto nelle carceri di Vicenza, dove, appunto, incontrò il Baù. Fu rilasciato nel giugno del 1944 e quel giorno era venuto a Valdagno per incontrare l’amico. Guadagnin non era nella lista dei fascisti ma lo inclusero subito dopo aver contattato i camerati di Bassano, dai quali appresero di aver messo le mani su un altro elemento pericoloso.
Il giorno dopo, domenica 2 luglio, vi furono altri 6 arresti: Virgilio Cenzi, 48 anni, comunista, sostenitore, con Pietro Tovo, del movimento partigiano, in particolare del battaglione “Stella”, fu preso verso mezzogiorno in piazza del municipio. Quasi contemporaneamente i fascisti catturarono dal barbiere in piazza Roma Pasquale Giovanni Zordan “Nani Sette”, 36 anni, anche lui comunista, attivista nella fabbrica “Marzotto”. Insieme a lui fu arrestato il cognato che non c’entrava nulla. L’aveva solo accompagnato dal barbiere. Era Francesco Rilievo, 25 anni, anche lui operaio alla “Marzotto”. Alcuni fascisti volevano lasciarlo andare, ma il comandante Grandis sentenziò: “Meglio uno in più che uno in meno”. Così fu portato con gli altri alla sede del comando tedesco. Quella stessa mattina altri due comunisti, Raffaele Preto di 24 anni e Marino Ceccon di 32, si erano recati a Fonte Abelina, in comune di Recoaro, per portare a “Marco” (Giuseppe D’Ambros), intendente del battaglione “Stella”, un pacco di medicinali. Non sapevano che proprio a Fonte Abelina era presente un altro importante esponente del Partito Comunista vicentino: Antonio Bietolini. Costui, classe 1900 aveva una lunga storia di militanza nel partito. Arrestato più volte passò 7 anni di confino alle Tremiti. Dal 13 febbraio 1944 era stato incaricato di dirigere la federazione vicentina del PCI in sostituzione dello scledense On. Domenico Marchioro. Poiché il suo nome era noto alla polizia politica, Bietolini aveva assunto una nuova identità, quella di Bruno Morassuti. Bietolini (alias Morassuti) era a Fonte Abelina per concretizzare un incontro con Marozin che avrebbe definito i rapporti tra le due formazioni partigiane, la brigata “Vicenza”, comandata appunto da Marozin, che si dichiarava autonoma dai partiti, e quella comunista costituita dal battaglione “Stella”. […] I tre tornarono a Valdagno e verso mezzogiorno si incontrarono davanti ad una farmacia del centro con il responsabile locale del PCI, Pietro Tovo “Piero Stella” di Valdagno. Costui era nella lista fascista delle persone sospette ed era sorvegliato. Quando lo videro incontrare gli altri tre i fascisti decisero di fare un’unica retata. Li seguirono fino alla vicina osteria. Qui avvenne il blitz dei fascisti che riuscirono a prendere i tre, mentre Tovo per un soffio sfuggì all’arresto, riuscendo a salvarsi. […]
Alla fine della mattinata i fascisti tirarono le somme: nel giro di poco meno di mezz’ora avevano arrestato sei persone, proprio in centro a Valdagno, davanti ad una gran quantità di gente, dando quindi dimostrazione della loro efficienza. […] Con i due presi il giorno prima gli arrestati erano otto, 5 comunisti, 2 socialisti e il Rilievo che era al di fuori di ogni attività clandestina.
Nessuno di loro aveva avuto alcuna responsabilità diretta o indiretta con l’uccisione del tenente Führ in località Ghisa.
Furono rinchiusi in fretta negli scantinati della scuola elementare, che fungevano da carcere per i tedeschi. […] Verso le ore 14.00, di quel 3 luglio, al ritorno da Vicenza del maggiore Diebold, comandante della guarnigione tedesca a Valdagno, gli otto prigionieri vennero portati al suo cospetto e qui interrogati. L’interrogatorio fu molto formale, tanto erano già condannati. […]
L’esecuzione fu stabilita per le ore 18. Fu tutto preparato con la meticolosità tedesca: furono scavate 8 buche nel cimitero, furono rizzati nel campo di tiro a segno tre pali perché la fucilazione doveva avvenire a tre per volta, con la presenza di tre testimoni, uno in rappresentanza degli intellettuali, uno della classe media, e uno degli operai.
Qualche minuto prima delle 18 gli otto vennero fatti salire su di un camion coperto. I prigionieri erano tranquilli perché pensavano di essere trasportati a Vicenza o in Germania. Invece compresero la loro sorte quando il camion si fermò davanti al poligono di tiro a segno e videro schierati i tedeschi ovunque, compreso il plotone di esecuzione.
Per primi furono fatti scendere Ceccon, Bietolini e Rilievo. Bietolini raccomandò a tutti di essere forti. Rilievo gridò inutilmente la sua innocenza. Poi scesero dal camion Preto, Cenzi e Zordan, mentre per ultimi rimanevano Baù e Guadagnin. Mentre i primi tre, scortati dai soldati della 4^ compagnia, si avviavano verso il luogo dell’esecuzione, Preto si accorse che sulla destra il reticolato della recinzione era interrotto. D’impeto si lanciò in quella direzione prendendo alla sprovvista i tedeschi. Gli spararono, ma i covoni di frumento del campo in cui era entrato lo protessero. Inseguito, corse a perdifiato, rubò una bicicletta che abbandonò poi ai margini del bosco che risalì di corsa, riuscendo a salvarsi. Di lì a qualche giorno divenne il partigiano “Rifles”. La fuga di Preto tardò solo di pochi minuti la fucilazione dei sette rimasti. […] Caddero in successione i primi tre Ceccon, Bietolini e Rilievo, poi altri due Cenzi e Zordan e infine gli altri due Baù e Guadagnin. […]
Nella rievocazione dell’episodio storico, non posso non soffermarmi qualche attimo sulla fulgida figura del mio concittadino Alfeo Guadagnin. Nel farlo, riprenderò alcuni passi di un vecchio ospucolo commemorativo che conservo: membro del C.L.N. di Bassano del Grappa fin dal suo sorgere, Alfeo nacque a Lancenigo di Villorba (TV) il 6 aprile 1899, da genitori di origine bassanese. Ragazzo del ’99, durante la prima guerra mondiale combatté dapprima sull’Altipiano di Asiago, settore Magnaboschi, dove fu anche ferito; diventò in seguito portaordini su moto “Frera”; la fine vittoriosa della guerra lo trovò al di là del Piave, in quel di Colbertaldo, Congedato il 30 dicembre 1920, aprì a Bassano, dove la sua famiglia era ritornata, un’autorimessa, prima in via Marinali e successivamente in viale delle Fosse, facendosi ben presto conoscere ed apprezzare per la sua onestà e per la sua affidabilità. Durante il ventennio fascista non contrastò il regime imperante, ma non rinnegò neppure i suoi ideali di libertà e democrazia: era di idee socialiste, come si conveniva a chi credeva nel riscatto della classe operaia, e i suoi leaders politici erano stati un giorno Filippo Turati e Giacomo Matteotti, [di cui proprio lo scorso 10 giugno abbiamo commemorato il centenario del barbaro assassinio]. Dopo l’8 settembre 1943, Alfeo Guadagnin fu tra i primi a promuovere e ad organizzare quella che si sarebbe detta, e fu, la Resistenza a Bassano e nei paesi limitrofi. Intrepido ed instancabile, trascurava quasi la famiglia e gli interessi privati per reperire armi, aiutare gli ex prigionieri di guerra alleati, allacciare contatti (ancora nell’autunno del 1943 stabilì un collegamento con le nascenti formazioni partigiane di S. Pietro di Rosà e di Cassola). Fermato un giorno di marzo del 1944 in via Marinali (una staffetta partigiana caduta nelle “loro” mani e messa alle strette aveva fatto il suo nome…) fu tradotto nella Casa del fascio […], fu qui insultato e percosso selvaggiamente, perché parlasse. “Mi trattarono come il più volgare delinquente” scrisse egli più tardi all’amico Gilberto Pianezzola dal carcere di Vicenza dove era stato trasferito da quello di Bassano. Poiché nulla era emerso a suo carico, con grande delusione e scorno dei fascisti bassanesi, suoi persecutori, nel mese di giugno del 1944 Alfeo Guadagnin fu rimesso in libertà. Uscito dalla prigione provato nel fisico, ma rinsaldato nella fede, egli riprese immediatamente il suo posto nel movimento clandestino, e la sua battaglia per il ripristino della libertà e della democrazia nel nostro paese”. Delle circostanze che portarono alla sua uccisione, con gli altri sei Martiri di Ponte dei Nori, abbiamo già parlato poc’anzi. Alla sua morte, uomo già in età matura, lasciò la moglie e quattro figli, il maggiore dei quali compiva quell’anno vent’anni; ed era costretto a vivere alla macchia in quanto renitente alla leva.
Se venite nel centro di Bassano del Grappa, c’è una piazzetta racchiusa da una cinta muraria, subito dietro il Municipio, con accesso dalla via che da Piazza Libertà porta al Castello degli Ezzelini e che, guarda caso, dal 19 settembre 1945 si chiama via Giacomo Matteotti: è un bell’angolo della Bassano medioevale, vi prospetta il duecentesco Palazzo Pretorio, sede dei Podestà al tempo della Serenissima Repubblica di Venezia e poi tristemente sede della Casa del Fascio durante il ventennio di dittatura fascista. Sempre dal 19 settembre 1945 quella Piazzetta porta il nome di Alfeo Guadagnin.
Sul suo prospetto settentrionale campeggia una lapide commemorativa, che recita così: “Piazza Alfeo Guadagnin – Martire antifascista fucilato a Valdagno il 3-7-1944”.
Vi porto sempre le scolaresche in occasione delle escursioni nei luoghi della memoria della Città che promuoviamo annualmente come Sezione A.N.P.I. e, quando facciamo tappa lì, agli studenti, oltre a raccontare la vicenda dei Sette Martiri, sottolineo la potenza evocativa e la forza ideale dei termini di quell’iscrizione. Lo voglio fare anche qui, oggi, in quest’occasione, attraverso alcune riflessioni conclusive al mio intervento.
La parola “martire”, mutuata dal contesto religioso cristiano e trasposta al contesto civile, ben si addice ai Caduti di Ponte dei Nori, noti – qui come in altri episodi del Vicentino – come “i Sette Martiri”. Il martire (dal greco μάρτυς – testimone) è colui che è morto o è stato sottoposto a pene corporali per avere testimoniato la propria fede o un ideale nonostante una persecuzione, senza abiurarli. Vi è poi accostata la parola “antifascista”, che rimanda all’antifascismo storico come idea base del pensiero, dell’azione e della lotta di Alfeo, dei Sette Martiri e di tutti coloro che diedero un contributo alla Liberazione del nostro Paese dal nazifascismo nelle varie e molteplici forme di Resistenza (riprendendo sempre il prof. Benito Gramola, che parla non di “Resistenza” ma di “Resistenze” al plurale: la “Resistenza armata” dei partigiani e delle partigiane, nonché delle forze armate regolari che combatterono dopo l’8 settembre 1943 per la Liberazione, la “Resistenza disarmata” degli internati militari nei lager nazisti, la “Resistenza civile” delle donne e degli operai nelle fabbriche, la “Resistenza culturale” degli intellettuali e pure di quelli in esilio all’estero, la Resistenza del clero e delle organizzazioni cattoliche quali l’AC e la FUCI); ma richiama anche all’impegno di continuare ad incarnare l’antifascismo quale idea base del vivere civile, sociale e politico della nostra Repubblica e della nostra democrazia.
Mai come in quest’ultimo periodo, nel dibattito politico e nei media, si sente ricorrere il termine “antifascismo”: lo si usa, lo si abusa, talvolta lo si svilisce o, peggio, lo si dileggia, spesso – purtroppo anche nelle istituzioni – si fa finta di dimenticarlo, quasi come un ingombrante e ormai superato retaggio del passato. Mi chiedo, dunque, quale cittadino italiano e quale bassanese che quasi quotidianamente, nei propri tragitti da casa al lavoro nel centro della Città, passa presso la lapide di Alfeo, e chiedo a tutti Voi: ma l’antifascismo è ancora attuale o è superato, essendosi ormai chiuso con lo svolgersi di determinati fatti storici e in una precisa stagione compiuta con il 25 aprile 1945? L’antifascismo è ancora di moda nella nostra Repubblica o si può considerare demodé dopo 80 anni? E ancora, l’antifascismo è qualcosa esclusivamente di sinistra o è un patrimonio di tutti, a prescindere dalle singole appartenenze ideali ed espressioni di voto? E, ulteriormente, l’antifascismo è qualcosa di potenzialmente pericoloso per l’ordine pubblico, quasi sovversivo, da tenere a bada, come ha pensato quasi un anno fa, tanto sorprendentemente quanto improvvidamente, un sindaco del mio territorio di fronte ad un’iniziativa che recava questa parola?
Sono interrogativi quanto mai attuali, particolarmente in questa fase socio-politica in Italia; sono domande, se volete, anche provocatorie, in senso tuttavia positivo e propositivo, e necessarie per stimolare una seria riflessione sul tema. Dobbiamo avere il coraggio di cimentarci con queste analisi. Sentiamo, infatti, chi, non senza una connotazione dispregiativa del termine, si definisce “anti-antifascista”; cosa che a livello concettuale, stando al significato delle parole, equivale a descriversi come “anti-democratico”, se è vero – com’è vero – che il fascismo-regime è stato negazione e privazione della democrazia e delle libertà fondamentali; ma in effetti non si sente nessuno che, almeno pubblicamente, osi definirsi oggi in Italia “anti-democratico”! Occorre, poi, ricordare che di recente, a proposito di Costituzione, si è parlato, addirittura da parte di personalità che rivestono importanti cariche istituzionali, di una natura non tanto antifascista del testo costituzionale, che sarebbe piuttosto a-fascista e non nominerebbe espressamente l’antifascismo. Il termine a-fascista riporta un prefisso di alfa privativo e può essere letto come assenza di fascismo o anche come mera indifferenza rispetto al fascismo. Un agevole ed efficace paragone si potrebbe fare mutuando, dal campo della religione o della filosofia, il termine “agnostico”, che normalmente identifica l’astensione dal prendere una posizione netta e definita in un verso o nell’altro o, in materia religiosa, uno stato di indifferenza tra la scelta di credere e la scelta di non credere.
Ben altra e chiaramente “antifascista” – e non solamente “afascista” – è stata la scelta dei nostri Padri Costituenti. Lo spiega bene Chiara Bologna, giurista e docente presso l’Università degli Studi di Bologna, in un articolo dal titolo “Attualità del patto costituzionale, tra pluralismo e antifascismo” che ho trovato pubblicato sul sito dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti e di cui riporto degli estratti: l’Assemblea costituente italiana fece alcune scelte molto chiare: la prima […] fu l’innegabile fondamento antifascista della Carta costituzionale della quale fu escluso, esplicitamente, nel corso del dibattito, il suo essere semplicemente «afascista». Come spiegò Aldo Moro, infatti, non era possibile «fare una Costituzione afascista», prescindendo «da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni». L’antifascismo non fu inteso dall’Assemblea costituente come cultura politica oppositiva. L’antifascismo prese corpo nella Costituente come ideologia di libertà e democrazia proprio perché il fascismo era stato, a sua volta, «un’ideologia negativa: la negazione della democrazia». E prosegue citando Norberto Bobbio: «Contro il principio dell’eguaglianza il fascismo aveva esaltato la gerarchia; contro il potere dal basso il potere dall’alto; contro la libertà l’autorità; contro lo spirito critico la fede cieca».
A tutti gli interrogativi sopra esposti io rispondo conclusivamente che l’antifascismo è la componente essenziale e imprescindibile del DNA della Costituzione repubblicana, l’espressione eccellente della sintesi delle diverse e variegate culture politiche antifasciste che insieme hanno fatto la Resistenza (comunista, socialista, azionista, cattolica, liberale, …) e il collante insostituibile della Repubblica italiana. L’antifascismo, in maniera diametralmente opposta al fascismo, dà spazio a tutte le idee e le opinioni politiche, ideali, religiose e culturali, tiene insieme tutti; perciò deve essere patrimonio di tutti. L’antifascismo non è un termine pericoloso, è semplicemente il minimo comune denominatore della democrazia, è ciò che permette a tutti di esprimersi, nelle istituzioni, nella politica, nella società civile e nelle variegate forme dell’associazionismo, religioso o laico che sia (e siamo anche qui oggi in tante e diverse Associazioni combattentistiche e d’arma, ciascuna con la propria storia e la propria specificità di impegno e azione); tutto ciò nella consapevolezza che il pluralismo e le diversità delle idee e delle esperienze singole e aggregate rappresentano una ricchezza, non una minaccia o un problema. Non è, dunque, sufficiente l’a-fascismo; per la vitalità della democrazia italiana è necessario l’antifascismo, e l’antifascismo non è solo di qualcuno, ma è di tutti e per tutti. Oggi è quanto mai urgente – ed è in capo a noi tutti, istituzioni, società civile, associazioni, scuole e realtà preposte all’educazione e alla formazione delle giovani generazioni – un enorme sforzo culturale e pedagogico perché l’antifascismo, inteso così come l’ho appena espresso, sia rimesso al centro e torni ad essere principio ispiratore del nostro vivere e del nostro agire civile, sociale e politico. Solo così potremmo raccogliere e portare degnamente avanti il testimone che ci consegnano i Sette Martiri.
Viva l’Antifascismo! Viva la Resistenza! Viva la Costituzione! Viva l’Italia!
Gianandrea Borsato